Cosa rappresentarono per l’Asinara quegli accadimenti che ne sconvolsero così pesantemente la fisionomia, fatti che, dopo il coinvolgimento nello sforzo bellico di moltissimi paesi, presero il nome di prima guerra mondiale?
Che significò per l’isola l’avvento di un conflitto armato che interessò le principali potenze mondiali e molte di quelle minori tra il luglio del 1914 e il novembre del 1918.
Il libri di storia ci hanno detto che, quella del ’15-’18 fu chiamata inizialmente dai contemporanei “guerra europea” poi, con il coinvolgimento successivo delle colonie dell’Impero britannico e di altri paesi extraeuropei tra cui gli Stati Uniti d’America e l’Impero giapponese, mutò il suo nome in “guerra mondiale” o anche “Grande Guerra“: fu infatti il più grande conflitto armato mai combattuto fino alla seconda guerra mondiale[1].
Non pretendiamo di insegnare nulla a nessuno, ma aiutandoci con le fonti disponibili, dobbiamo purtuttavia inquadrare il periodo storico entro cui ebbero luogo gli avvenimenti così importanti e così rapidi da aver meritato il titolo di questo pezzo ovvero “fulmine austro ungarico” per giungere a rappresentare, con semplici concetti, gli accadimenti.
IL PERIODO STORICO
Il conflitto ebbe inizio il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia preceduta dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo – Este, avvenuto il 28 giugno 1914 a Sarajevo.
A causa del sottile gioco di alleanze formatesi negli ultimi decenni del XIX secolo, la guerra vide schierarsi le maggiori potenze mondiali, e rispettive colonie, in due blocchi contrapposti: da una parte gli Imperi centrali (Germania, Impero austro-ungarico e Impero ottomano), dall’altra gli Alleati rappresentati principalmente da Francia, Regno Unito, Impero russo e, dal 1915, Italia.
Oltre 70 milioni di uomini furono mobilitati in tutto il mondo (60 milioni solo in Europa) di cui oltre 9 milioni caddero sui campi di battaglia; si dovettero registrare anche circa 7 milioni di vittime civili, non solo per i diretti effetti delle operazioni di guerra, ma anche per le conseguenti carestie ed epidemie[1].
Una di queste epidemie riguardò proprio i prigionieri austro ungarici che dal porto di Valona raggiunsero l’Asinara. Abbiamo già scritto del tremendo viaggio a piedi, intrapreso dai serbi che spingevano davanti a loro le decine di migliaia di prigionieri austro ungarici.
I TEMPI E I NUMERI
– da Nish (Serbia) a Valona
il 6 ottobre 1915 Austria, Germania e Bulgaria attaccano massicciamente la Serbia e la sconfiggono. L’esercito serbo fugge portando con se 50.000 prigionieri tra cui ci sono anche soldati italiani. Una massa di persone, che alcuni storici stimano in 70.000 si incamminano senza cibo, tra la neve, per 77 giorni andando verso sud, verso il porto di Valona in cui arrivano solo in 30.000.
Già a Valona ed a causa della lunghissima traversata intrapresa in condizioni disumane, i prigionieri erano giunti avendo contratto il colera, ma la maggioranza dei decessi sui piroscafi e nell’isola dell’Asinara avvennero per differenti cause, come riporta puntigliosamente la “Relazione del Campo di prigionieri colerosi all’isola dell’Asinara” del Generale Ferrari.
Inizialmente i decessi furono dovuti a forme di infezioni intestinali, nefriti, malattie cardiache e dell’apparato respiratorio, nonché al grave esaurimento organico dovuto alla traversata da Nish (Serbia) a Valona.
I “FANTASMI” nudi, scalzi, intirizziti, “LA COLONNA DI PRIGIONIERI”
Molti di coloro che, all’epoca raccontarono questa immensa tragedia, utilizzarono termini terrificanti per descriverne lo svolgimento.
Immagino questo immenso sciame di formiche che lentamente si svolge, lacero ed affamato, si trascina su terreni impervi, supera grandi pozze di fango, privazioni, percorre strade appena battute e ricoperte di neve …. un’orma di morte che lascia dietro di se la bava di cadaveri appena abbozzati, una scia nera di uomini stremati.
Si cibano di ogni cosa, carne delle carogne di animali morti, bevono l’acqua delle pozzanghere melmose, qualcuno riferisce di episodi di antropofagia (Eugenia Tognotti – La Nuova di Sassari 23.01.2014)
Poi, giunti finalmente a Valona, si imbarcano sui piroscafi che prendono il largo alla volta dell’Asinara.
All’ASINARAIl 18 dicembre 1915 getta l’ancora nella rada di Cala Reale il Piroscafo “Dante Alighieri” con i primi 1.995 prigionieri austro – ungarici, il natante viaggia assieme al Piroscafo America con 1.721 prigionieri ed un Cacciatorpediniere di scorta.
Dopo il primo comprensibile momento di sbandamento, dovuto al numero di persone (3.716) giunte all’Asinara ed in attesa di sbarco, le strutture predisposte dall’Italia si attivarono per definire il sistema di accoglienza atto a ridurre, il più possibile, il disagio dei prigionieri.
Sia la composizione etnica di quell’insieme che chiamiamo, per convenzione, “prigionieri austro-ungarici”, che le radicate convinzioni religiose (prospetto successivo) furono in grado di complicare notevolmente la vita, non certo semplice, negli accampamenti e nelle strutture sanitarie.
Scrive Angelo Flavio Corridi sulla convivenza di varie etnie all’interno dei campi di prigionia:
“Appena le forze tornavano ai prigionieri si ridestavano fra loro gli odi di razza e bisognò per forza dividere dagli austriaci, i turchi ed i bulgari e fare dei reparti separati per gli ebrei e gli zingari.
La nostra delicatezza arrivò al punto da fare, poi, dei ranci separati, per non urtare le suscettibilità religiose delle diverse razze e perché alle cure spirituali loro destinate, insieme ai cimiteri, sorsero delle cappelle ed il rappresentante del Papa, in persona di mons. Cassani, arcivescovo di Sassari, non mancava di venire quasi ogni giorno a sorvegliare i campi.“
(Vedetta di Fiume, 13 gennaio 1924)
Gli strascichi dolorosi di questo periodo furono destinati a perdurare negli anni.
Quello che accadde sull’isola dell’Asinara lo scopriremo gradualmente esaminando documenti dell’epoca nei prossimi articoli.
“LA LUNGA MARCIA”
Quel periodo che va dal 1915 e supera il 1920, per milioni di persone si trasformò in una tragedia, ma se possibile, per il prigionieri che giunsero poi all’Asinara, deve essere stato semplicemente infernale.
Possiamo solo avvicinarci minimamente alle sofferenze che provarono queste persone, leggendo e tramandando i loro racconti, guardando le immagini che li rappresentano.
Ecco di seguito l’immagine di una delle opere (ormai definitivamente scomparsa) dell’artista Ungherese Gyorgy Nemess che fu collocata nel Campo di Prigionia di Campo Perdu. Il complesso statuale, composto con i poveri materiali a disposizione sull’isola, cioè cemento e ferro, riesce a esprimere visivamente, in modo potente, tutto ciò che, queste persone, hanno dovuto subire oltre l’evento bellico.
Il gruppo posto ai piedi della figura apicale esprime le volontà e le peripezie dei prigionieri. Molti hanno rimpianto di non essere periti per mano di soldato nemico, a causa di una pallottola o per l’esplosione di una granata.
Seguiamo la descrizione del complesso monumentale di Campo Perdu fatta dal prigioniero Robert Shatz nel suo pregevole testo: Prigionieri di guerra ungheresi sull’Isola dell’Asinara”
La descrizione dell’opera “Il lungo viaggio” dello scultore ungherese Gyorgy Nemess tratta dal testo: Prigionieri di guerra ungheresi sull’Isola dell’Asinara di Robert Schatz:
Le muscolose figure umane sull’alto piedistallo rappresentano i prigionieri di guerra, che attendono la pace sperando in un futuro migliore.
I gruppi di prigionieri che circondano il basamento, fanno venire in mente singoli episodi della “lunga strada”: due figure lottano per un pezzetto di pane, accanto ad esse altre si accasciano, fiaccate dai patimenti.
Un secondo gruppo come in una visione guarda l’Angelo salvatore che s’affretta su di loro; un prigioniero offre appoggio al compagno, un altro è assorto nelle preghiere; fratelli che si incontrano si gettano nelle braccia l’uno dell’altro.La superficie posteriore del piedistallo è abbellita da ritratto del Salvatore. (3)
di seguito ingrandita l’epigrafe che esprime l’anelito di fratellanza universale che sovrasta sempre ogni avversità del destino.
Infine accludo la immagine restaurata del Campo di Prigionia di Campo Perdu in cui spicca il complesso statuale “Il lungo viaggio”.
Ingrandendo si riesce ad osservare che nell’immagine del campo di prigionia la statua posta apicalmente sembra impugnare ancora un’asta forse sormontata da una bandiera.
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