A tutti gli illusi
che combattono, affinché
le guerre d’ogni tipo
non abbiano cittadinanza
nel mondo.
A tutti coloro che lavorano
perché nel mondo
le teorie economiche predatorie
finiscano di prevalere
su quelle sociali.
(carlo hendel agosto 2021)
abstract
LA STORIA DI UNA TERRACOTTA
Il 28 novembre 2020 Ivan Chelo, in visita sull’isola dell’Asinara, nota un oggetto assicurato con uno spago al cancello di accesso dell’Ossario dei prigionieri austro ungarici in Campo Perdu, è una terracotta raffigurante un volto.
L’esame approfondito pone a confronto questo interessante manufatto con analoghe produzioni del periodo.
E’ fervido l’auspicio che, chi ha ricondotto la terracotta nel suo luogo d’origine, possa prendere visione di questo lavoro e abbia la possibilità e l’opportunità di mostrarsi con l’autore, o con la Direzione del Parco Nazionale dell’Asinara, per circostanziare e testimoniare la volontà, così discretamente espressa.
E’ azione importante per riannodare il filo della storia.
THE STORY OF A TERRACOTTA
On 28 November 2020, Ivan Chelo, on a visit to the island of Asinara, notices an object secured with a string at the access gate of the Ossuary of the Austro – Hungarian prisoners in Campo Perdu, it is a terracotta depicting a face.
The in-depth examination compares this interesting artifact with similar productions of the period.
It is fervent hope that those who have brought the terracotta back to its place of origin will be able to view this work and have the possibility and the opportunity to show themselves with the author, or with the Direction of the National Park of the Asinara, to give details and testify to the will, so discreetly expressed.
It is an important action to reconnect the thread of history.
INTRODUZIONE
“Qualche volta ancora ripenso a quel viaggio di immenso dolore e se lo affermo io, che avevo partecipato alla guerra, potete credermi, poi vengo attanagliato dal terrore profondo, viscerale che non mi abbandona più se non dopo decine di giorni.”
“Cerco di stare davanti, quelli che rimangono indietro non riescono a proseguire nella marcia, vengono colpiti e derubati.
Non so se riuscirò ad essere abbastanza resistente, il mare è ancora molto lontano e la nostra sofferenza è sempre più insopportabile!
Dio ci aiuti.”
Sbarcando dal traghetto che conduce al Parco Nazionale dell’Asinara nella Rada di Cala Reale e nel porticciolo omonimo, si viene accolti da imponenti costruzioni del periodo prebellico.
Alla destra, del viaggiatore che sbarca, si osserva ancor oggi il fabbricato dal singolare colore “rosso mattone” su cui campeggia la gigantesca scritta: ALTO COMMISSARIATO PER L’IGIENE E LA SANITA’[1].
Una volta sul molo di Cala Reale, volgendo lo sguardo nella parte opposta al fabbricato rosso, si può senza difficoltà, apprezzare, in lontananza, una costruzione squadrata di colore bianco sulla cui facciata spicca una grande croce.
E’ questo l’Ossario[2] il monumento che contiene le spoglie di una parte dei prigionieri di guerra austro ungarici che persero la vita sull’isola dell’Asinara nel periodo della Prima Guerra mondiale (1916-1917).
Al momento del decesso i militari prigionieri furono seppelliti in vari punti dell’isola, nelle adiacenze del mare, in punti in cui era più facile lo scavo, ma il numero dei decessi, incredibilmente alto ed i mezzi di trasporto irreperibili, moltiplicarono le zone di sepoltura.
Fornelli, Tumbarino, Stretti, Campo Perdu, ma anche Trabuccato e su, su, fino a Cala Giordana e Elighe Mannu sono le località dell’isola che si riempirono di piccoli e grandi luoghi di sepoltura, furono anche due o tre, di differente grandezza, nei pressi di ogni campo dei prigionieri.
Successivamente e per decenni le mareggiate hanno svuotato le tombe dei poveri resti finché non fu edificato l’Ossario, le ossa riesumate e raccolte nelle teche che ancora oggi le custodiscono.
LA VICENDA STORICA
L’anno è quello del 1916, un prigioniero, il cecoslovacco Josef Šrámek[3] tenne un diario del calvario patito, si salverà e tornerà in patria, dopo essere stato trasferito, come prigioniero, in Francia.
Josef, il primo gennaio 1916 racconta dei preparativi per la partenza dei prigionieri dei Serbi.
Il contingente di prigionieri, partito da Niš,[4] dopo settantasette giorni, privi di vestiario e di cibo, finalmente giunge al porto di Valona e si imbarca sulla nave italiana Armenia, di cui scrive:
“Stamattina gli italiani ci hanno accompagnato al piano superiore, ci hanno spogliato, ci hanno bagnato e ci hanno vestiti con uniformi italiane. Nel frattempo pulivano il ponte inferiore, gettavano tutte le nostre cose nel mare e disinfettavano tutte le stanze. Hanno buttato via tutte le nostre cose – scarpe, coperte – sono appena riuscito a salvare il mio diario, che stava già uscendo. Le cose che gli uomini hanno dovuto trascinare attraverso tutta la Serbia, e con cui non hanno preso parte anche in Albania, ora stanno galleggiando.
Sfortunatamente c’era dell’altro che gettarono in mare, i morti.
Erano 20
La nostra nave sta ancora navigando lungo la costa, accompagnata da altre due: il Sinai e il Dante[5].
Ieri è stata la fine di quello sfortunato anno 1915, in cui ho messo tanta speranza e che mi ha deluso così tanto. Ognuno di noi credeva che quell’anno ci avrebbe portato la liberazione, ma invece fu un anno delle peggiori tribolazioni e miserie. Gli ultimi 3 mesi sono stati i peggiori; più di 4000 persone morirono e quelli che rimasero vivi sembravano scheletri.
Oggi, liberi da quegli stracci e ancora nella biancheria pulita, guardiamo al nuovo anno con nuove speranze. Mi porterà ciò che desidero – pace e libertà?”
Le speranze dei prigionieri vengono fugate dalla constatazione di essere sbarcati in un’isola pressoché disabitata, con una struttura militare, preventivamente allertata per accogliere circa 5-6mila persone sane, poi ne accoglierà 24 mila, di cui 8.200[6] resteranno per sempre sull’isola dell’Asinara falcidiati dagli stenti e dalle sofferenze patite e decimati dal colera.
I primi mesi sull’isola furono i peggiori, i prigionieri, abituati alle avversità del destino, alle angherie e ai soprusi, dovettero sottostare ad ulteriori vessazioni fisiche e psicologiche nelle strutture di accoglienza, grandissimi attendamenti.
La mancanza d’acqua potabile fu il problema più grande per l’Asinara e contribuì ad accelerare le morti dei prigionieri, in misura direttamente proporzionale con l’accrescersi della grande massa di prigionieri sbarcata improvvisamente sull’isola, complice l’impreparazione iniziale che sicuramente può essere definita concausa nella diffusione del colera.
Josef Šrámek il 6 gennaio 1916, dopo essere sbarcato sull’isola, scriverà:
“Dobbiamo andare lontano sulle rocce, scavare un buco, aspettare che affiori l’acqua e scodellarla. E’ sporca, piena di fango, ma cosa fare, la sete è grande.
Una malattia si sparge tra noi. E’ la causa dell’acqua cattiva, la carne in scatola è salata e la gente beve l’acqua sporca o di mare. Ti viene il mal di stomaco, la diarrea, ti indebolisci e il giorno dopo sei morto.”
L’esercito italiano non avendo il tempo materiale di predisporre alcunché, dopo i primi giorni di vera disperazione, dovette affidarsi a persone senza scrupoli per fornire i prigionieri di beni e generi differenti dalla semplice zuppa e dal pane.
Campo Perdu fu il primo accampamento all’Asinara dove furono distribuiti pasti caldi.
Le differenti etnie, che componevano il variegato mondo dei prigionieri, furono spesso occasione di scontri, non solo verbali.
Prima ancora che le forze tornassero nei prigionieri, riaffiorarono le differenze razziali e religiose e dovettero essere divisi, austriaci, turchi, bulgari, ebrei e zingari.[7]
Poi fu l’ozio forzato, come forzato era il lavoro, ad occupare le loro menti e. finalmente dopo mesi, per i sopravvissuti, iniziò una lentissima rinascita individuale, pure in presenza della struggente nostalgia degli affetti e dei luoghi d’origine.
In relazione alle attività di lavoro il Generale Carmine Ferrari (Comandante del Campo di Prigionia) nel suo diario,[8] il 22 aprile 1916 afferma di aver creato numerose squadre di: muratori, sterratori, giardinieri, macellai, panettieri, addetti ai trasporti ed elenca una serie di “professionalità che, sull’isola dell’Asinara, avevano contribuito alla realizzazione dei manufatti: falegnami, maniscalchi, fabbri, pittori, scultori, mosaicisti, musicisti, lavandai e modellatori.
Lo scopo formalmente dichiarato dal Generale era quello di utilizzare le capacità individuali per raggiungere traguardi collettivi e contestualmente risollevare lo spirito dei prigionieri profondamente depressi da quei frangenti.
IL “GIOIELLO”
La parte centrale di questo lavoro tratta più specificamente del ritrovamento di un’opera in terracotta rinvenuta, da Ivan Chelo, accuratamente assicurata all’inferriata del cancello di accesso al Mausoleo che racchiude, in teche di vetro, le spoglie terrene di 7048 prigionieri di guerra.
Era il 28 novembre 2020 e nella prima immagine che segue si può vedere, in lontananza, la sagoma dell’Ossario dei prigionieri di guerra austro ungarici di Campo Perdu.
Si è scelta questa inquadratura del monumento, in campo lungo, per mostrare la dimensione del mausoleo e del suo portale di accesso, sul cui cancello è stata rinvenuta la terracotta (ingrandimento).
L’opera in esame è un bassorilievo in terracotta, di piccole dimensioni, cm 12 × 11 (l’immagine, scattata al momento del ritrovamento, rende il rapporto dimensionale con la grata).
Nella parte interna dell’inferriata è posizionata una rete plastificata, di colore verde, per interdire l’accesso degli animali di piccola taglia, all’interno dell’Ossario.
L’immagine della terracotta è stata graficamente elaborata in differenti modalità e con varie tecniche informatiche, tutte finalizzate a far risaltare i differenti aspetti di questa singolare opera d’arte.
Il piccolo manufatto, appositamente ingrandito, ci mostra un viso apparentemente dai tratti femminili, compreso tra le mani che lo contengono, quasi accarezzandolo, mani che lasciano libero l’occhio destro con la palpebra abbassata.
Nelle elaborazioni seguenti è possibile osservare che la mano a sinistra, nella prima figura rappresentata priva del viso, è abbozzata in modo meno realistico ed è posta a coprire parzialmente il naso e, totalmente, l’occhio di sinistra.
La mano destra, sembra collocata a sostenere il peso del viso.
Il volto e le mani, paiono uscire da un fazzoletto, o un copricapo appena accennato che racchiude e contorna tutta la terracotta.
L’espressività del viso, la struttura della terracotta e la sua grana grossolana contribuiscono a contraddistinguerla da altre opere, sempre in terracotta dell’Asinara, pervenuteci a distanza di oltre cento anni.
Negli schemi proposti l’assenza, pressoché totale del colore, contribuisce a far risaltare la fattura, di buon livello, dell’oggetto, e lascia immaginare che la realizzazione dell’opera sia, molto probabilmente, opera di un artigiano, dotato di discreta esperienza, anche se inconsapevolmente “grezzo”.
L’artista si cimenta, non certo per la prima volta, in un’opera straordinaria, la cui carica sentimentale ed emozionale assume valenza preminente rispetto alla scelta stilistica.
Ne risulta il tratteggio accennato della figura in bianco e nero di un autore molto “coinvolto”.
Quest’opera esprime più di un sentimento.
Balza agli occhi Il dolore profondo subìto, per lungo tempo, dal prigioniero. Un dolore, d’una intensità tale, da divenire assolutamente insopportabile. La violenza della visione da sola dialoga con i nostri occhi e denuncia la sua inesprimibilità, attraverso le parole, anche le più semplici o attraverso le più raffinate tecniche narrative.
Solo la mediazione dell’espressione artistica, consente all’autore di sganciarsi dalla gravosità dell’angoscia e del dolore provati, per consentirgli di riuscire a rappresentare plasticamente queste sensazioni, appieno e con intensità vicina a quella provata.
In questo contesto appare affatto casuale che l’unico occhio, non coperto dalle dita della mano, abbia le palpebre abbassate, quasi a non poter (voler) più assistere ad altri orrori.
Ecco la terracotta ingrandita per poterne osservare i particolari.
E’ davvero sorprendente come l’autore abbia potuto concentrare tutta la potenza del dolore provato, in un oggetto così minuscolo.
L’ulteriore elemento che la terracotta appare diffondere, sia pure su un piano decisamente inferiore rispetto al dolore, è il senso di abbandono.
Lo sfinimento di questo volto è la sensazione che appare in tutta la sua tranquilla rassegnazione, quasi che l’animo umano fosse stato sovrastato dagli accadimenti della prima guerra mondiale che, negli individui, è riuscita a provocare l’assenza di ogni reazione.
Il 19 ottobre 1915 alle ore 9,00 iniziò la fuga dalla città di Nìs di 35 – 40.000 soldati austro-ungarici già sopravvissuti a 10 mesi di prigionia in Serbia, e diretti verso Prokuplje città in cui arrivarono alle ore 20,00 dopo aver percorso 32 chilometri.[9]
Dopo due mesi di marcia ininterrotta, il 20 dicembre 1915, il grosso della massa dei prigionieri inizia ad arrivare a Valona, trascorreranno poi altri giorni prima di imbarcarsi per l’Asinara.
Le stime di alcuni autori riferiscono di 27.000 prigionieri che riuscirono a vedere il mare di Valona; in due mesi ne morirono dagli 8 ai 13.000.
Nell’immagine precedente uno dei numerosi disegni di Aldo Carpi che raffigura l’allucinante condizione di arrivo a Valona, dei prigionieri di guerra.
IL RETRO DEL BASSORILIEVO
L’esame accurato della parte retrostante del manufatto continua a fornire all’osservatore ulteriori informazioni e sensazioni.
È di tutta evidenza come l’autore abbia ricavato il materiale per il bassorilievo da un’unica striscia di argilla, ripiegata su sè stessa più volte, sino ad ottenere lo spessore necessario a modellare il volto.
Nell’immagine successiva questa operazione di formazione del manufatto è evidenziata dalle indicazioni apposte, con frecce di colore bianco, mentre il tratteggio rosso indica le ripiegature.
Ma l’analisi dell’immagine della terracotta non è affatto conclusa, la zona centrale del retro, nei pressi degli annerimenti provocati, dalla cottura dell’argilla, eseguita in un forno evidentemente “approssimativo”[10], appare leggermente abrasa quasi a voler cancellare la scritta, forse impressa in origine.
Successivamente, con una matita, è stata apposta una sigla alfanumerica che potrebbe apparentemente corrispondere alla sigla “V8” e, con un carattere leggermente più piccolo, il numero “71” come evidenziato nell’ingrandimento che segue.
E’ stato utilizzato il termine “apparentemente” poiché guardando l’immagine si nota come la prima lettera sia stata oggetto di due o tre passaggi della punta di grafite, inoltre quella prima lettera ha qualcosa di indecifrabile, non appare perfettamente corrispondere ad una lettera “V“, ma appare maggiormente somigliante alla lettera greca “omega rovesciata” (omega Ω).
Un breve cenno alla modalità con la quale chi l’ha lasciata, ha inteso assicurarsi che non cadesse o si deteriorasse, riguarda lo spago con il quale è stata legata all’inferriata che conferma l’intenzionalità del rilascio fortemente voluto. Lo spago in fibra grezza infatti, con differenti volute, l’assicurava nella posizione di ritrovamento. (immagine seguente)
La sensazione complessiva che scaturisce dall’attento esame della terracotta è che la collocazione del manufatto non sia stata una semplice “dimenticanza”, ma l’azione di chi intendeva ricordare, e celebrare, compiere un rito quasi che il “ricondurre la terracotta alle sue origini” possa essere stato allo stesso tempo il “rispetto di una volontà” e il “riappacificarsi con la propria storia pregressa”.
Quasi si sia voluto riempire il vuoto, lasciato dal dolore, per più di cento anni.
L’attuale collocazione (Febbraio 2021) vede il bassorilievo posizionato sul primo sopralzo nel lato sinistro di chi guarda, sull’altare nella Cappella dell’Ossario di Campo Perdu.
LE FORNACI PER LA COTTURA DELL’ ARGILLA
La relazione del Generale Ferrari esplicita la cronologia delle attività che si instaurarono per i prigionieri di guerra e collega la realizzazione del primo manufatto ad opera di un artista di Budapest nel Campo di Stretti ed è proprio nella zona di Stretti che si edificò la prima fornace per la cottura dell’argilla.
Anche Robert Schatz ci riferisce della fase di scoperta della lavorabilità dell’argilla di Tumbarino e dell’entusiasmo con cui fu accolta questa opportunità di lavoro all’’Asinara.
L’immagine che segue mostra la veduta aerea dell’Ossario dei prigionieri di guerra austro ungarici sito in località Campo Perdu.
SUGLI ARTISTI “PRIG. D. G. ALL’ASINARA“
Le opere degli artisti, finora rintracciate, riportano inciso sul retro della terracotta, oltre il nome dell’autore, anche l’acronimo “prig. d. g.” che sta per “prigionieri di guerra”.
“Dal censimento dei prigionieri, distinti per professione, risulta che tra i «dannati» dell’Asinara vi fossero anche 22 «pittori di quadri», 7 «pittori decoratori» e 9 «scultori». Alcuni di loro si resero protagonisti della realizzazione di una serie di opere monumentali di vario genere: bassorilievi, statue in cemento, altari che, nella gran parte dei casi, vennero realizzati allo scopo di testimoniare la devozione religiosa e la riconoscenza nei confronti delle truppe italiane, protagoniste dell’opera di soccorso a questi sventurati, reduci dalla terribile marcia Nis – Valona[11]“.
I nominativi dei prigionieri di guerra che si dedicarono all’attività di preparazione dei manufatti d’argilla e della loro cottura sono: György Nemess – Károly Gay – János Arpád – István Szász – T. De Bottlik di ognuno sarà mostrata l’immagine di un’opera.
Scrive Robert Schatz, Ufficiale medico ungherese prigioniero di guerra:
“Con il decreto emesso il 15 maggio 1916 dal comando fu costituito il “Museo dei Prigionieri di guerra” (Museo dei Lavori, in it. nel testo), il quale andò ad occupare più tardi una sala intera nell’edificio del comando stesso: il maggior decoro del museo è rappresentato dal vasellame in ceramica, le cosiddette “terrecotte”.
La creazione di un’attività artigianale del genere all’Asinara fu merito di un magiaro, il ceramista di Budapest Károly Gay, prigioniero a Stretti. [12]
In qualche viaggio “ufficiale” – forse trasportò di peso un albero intero dalla montagna – con occhio allenato in un luogo tra Tumbarino e Stretti scoprì un’argilla che sembrava adatta. La sua mano abituata all’opera non poteva rimaner tranquilla. Raccolse, plasmò l’argilla, anzi la cosse persino in un focolare del tutto improvvisato, preparando in tal modo la prima terracotta dell’Asinara: una piccola, graziosa tenda di color rosso-bruno.
I medici prigionieri e gli italiani videro la cosa, e presto nacque l’idea di far costruire sul posto il vasellame mancante degli ospedali (erano molti i malati di enterite).
Fecero perciò costruire per Gay una piccola fornace, probabilmente egli stesso arrangiò alla meglio una ruota del pentolaio; ricevette dagli italiani attrezzi, uno staccio[13], gesso e altro materiale necessario, si trovarono anche degli aiutanti, tra i quali un altro ungherese, János Arpád: il laboratorio entrò così in funzione.
Più tardi anche a Tumbarino impiantarono un laboratorio simile.
Dalla fornace uscirono uno dopo l’altro i piatti bruno-rossastri, tazze, portauova, catini, padelle, altro vasellame necessario. Quando ormai gli ospedali ebbero avuta in gran copia la loro dotazione, si diede il via alla produzione di oggetti di fattura più raffinata, più artistici: candelieri, portacenere, calamai, targhe commemorative, perfino statuine.
Mani d’artista, come quelle del già ricordato pittore István Szász, plasmarono le figure, gli ornamenti, e con questi la piccola, modesta officina produsse articoli ornamentali molto belli, brocche di tutti i tipi, vasi da fiori, tabacchiere, urne, che gli italiani stessi ammirarono come un miracolo. Più tardi il Comando fece stabilire Gay e gli altri artisti dal campo della truppa a Cala Reale, in una casa. Da quel momento e in quel luogo si occupò esclusivamente della sua arte – anch’egli fu tra coloro che si trattennero all’Asinara – finché non gli riuscì di tornare in patria per uno scambio di infermi.
Dobbiamo spendere ancora due parole sul pittore István Szász, che fece guadagnare, con la sua arte, gloria al nome magiaro davanti agli italiani, al punto che nel più volte citato testo del Ferrari, ben ventun righe sono dedicate a ricordarlo.
Volontario, era caduto in prigionia dei Serbi col grado di caporale, anche in quell’occasione grazie alla sua arte ottenne miglior trattamento per i suoi compagni, potè continuare a dipingere, anzi con alcuni colleghi pittori gli fu affidata la dipintura dell’iconostasi (presbiterio) della cattedrale di Nis.
Anch’egli fece tutta la ritirata d’Albania, e a Fieri si trovò nelle mani degli italiani. Aveva portato con sé quadri dipinti in Serbia, avvolti sul corpo.
Giunse all’Asinara il 1 gennaio 1916 con la Dante, senza bagaglio, con gli abiti a pezzi, solo i suoi dipinti sulla spalla consunta fino all’osso, appesi ad uno spago! A Stretti visse sei mesi sotto la tenda dapprima nel campo, donde usciva con un “permesso illimitato” per lavorare a Cala Reale, poi tra i volontari che per la maggior parte lavoravano negli uffici, senza compiere lavori di fatica.
Gli italiani si accorsero, per caso, che era un pittore e gli misero a disposizione come atelier una stanzetta a Cala Reale. Era un artista versatile, dipinse, modellò, fece progetti per gli italiani.
Gli ufficiali italiani che giunsero sull’isola si fecero eseguire il ritratto dipinto o a matita, a cominciare da Ferrari per finire con il generale Vannugli. Il suo compenso fu il materiale necessario alla esecuzione dell’opera. Fu lui a dipingere le vetrate delle cappelle di Stretti e Cala Reale, ad eseguire schizzi dell’Asinara; gli fecero progettare la sistemazione architettonica in forma di terrazza dello spazio principale della Stazione di quarantena. Dove si trattava di opere d’arte, egli veniva sempre utilizzato. Di conseguenza onoravano l’artista che era in lui, per quanto possibile facilitarono la sua situazione.
Così, all’epoca della partenza dei prigionieri di Serbia dall’Asinara, lo trattennero sull’isola e poi lo sistemarono in una delle case del Primo Periodo, assieme al precedentemente ricordato Gay, ad un alfiere di nome Bottlik, il quale era diventato abile nella produzione di targhe commemorative in terracotta, e a qualche altra persona utile; in seguito diedero loro alloggio nel campo ufficiali del Secondo Periodo.
Gli italiani lo amavano a tal punto che, malgrado le frequenti promesse, soltanto nel mese di luglio del 1919 lo inviarono in patria passando per Thiene, scambiandolo con un invalido. Portò a casa a Budapest tutti i rotoli con i quadri e i disegni.” [14]
LAVORI IN TERRACOTTA DEL 1917
Nelle fornaci dell’Asinara durante il periodo di permanenza dei prigionieri di guerra 1916 – 1917, come elenca il Generale Carmine Ferrari nella sua “Relazione” e come ha ricordato anche Robert Schatz, furono prodotte innumerevoli e differenti opere, di cui forniamo una trattazione, esclusivamente fotografica, per evidenziare le differenze o le similitudini nelle produzioni artistiche, attraverso le immagini.
IL PRIMO CALAMAIO DA SCRITTOIO
IL SECONDO CALAMAIO DA SCRITTOIO
Questo ulteriore calamaio da scrittoio è proposto attraverso le immagini fornite dal Sig. Carlo Gianotti, il proprietario.
La parte retrostante dell’opera reca l’incisione dell’autore “Arpaid J. prig. d. g. Asinara 1917”, si notino le analogie nella scrittura, ad esempio, nelle tre “A” della parola “Asinara”, (una maiuscola e due minuscole) la seconda asticella è notevolmente prolungata, così come nella “R”.
Si sottolinea la differente fattura rispetto al primo esemplare di Alberto Monteverde. Questo manufatto, al di la della diversa collocazione della scritta, corrisponde con le dimensioni analoghe del precedente, ma la cottura dell’argilla appare meno omogenea.
La mano che ha prodotto entrambi gli esemplari è però indiscutibilmente quella dello scultore di Budapest János Arpád sottufficiale prigioniero dell’esercito austro ungarico all’Asinara.
Di questo secondo esemplare si conosce anche il percorso compiuto dopo la realizzazione, poichè è stato donato dal sottufficiale austroungarico, Jánosh Arpád al nonno di Carlo Gianotti, il famoso armatore Clementino Bonifacino[15] che, nel primo decennio del 1900, proprietario di una “bilancella carlofortina”, effettuava il collegamento tra Stintino, l’Asinara e Porto Torres per il servizio postale e per il trasporto di merci e persone.
IL PRIMO FERMACARTE
Il successivo bassorilievo è di Gay Karoly, (immagine precedente) ripropone il tema amoroso, molto sentito dai prigionieri e raffigura due soggetti di sesso diverso congiunti in un bacio appassionato. La tavoletta originale è attraversata da due fratture restaurate graficamente in fase di redazione del presente lavoro (foto originale di seguito).
Il pianto, il dolore, la disperazione sono le costanti di queste opere eseguite durante il periodo 1916 – 1917 dai prigionieri di guerra, ma v’erano artisti che riproducevano anche momenti differenti, ricordi di tempi e di luoghi cari…..
IL SECONDO FERMACARTE
Il prossimo bassorilievo in terracotta, fa sempre parte della collezione di Carlo Gianotti e rappresenta un volto femminile piangente.
Nell’ingrandimento sono state evidenziate, con leggerissimo tratteggio giallo, le parti che indicano il pianto della figura femminile rappresentata.
IL BASSORILIEVO DEL BASTONE
Si propone l’ultimo bassorilievo attribuito a T. De Bottilik che, in tempi recenti, è stato riprodotto in varie copie bronzee di cui una presente nel Polo Museale di Sanluri (Sardegna) dedicato alla riproposizione delle attività di lavoro dei prigionieri austroungarici.
Come tutte le altre anche quest’opera ha “fermato nella materia” un momento particolare dell’attività di lavoro dei prigionieri e introduce una rilevante conferma alla problematica, che ha originato furibonde polemiche nel periodo post bellico e che, con buona probabilità, costituisce il motivo del pluridecennale “silenzio ufficiale” sulla dolorosa vicenda dei prigionieri di guerra all’Asinara.
La parte centrale del bassorilievo raffigura infatti un gruppo composto da un soldato di guardia che si riposa e tre prigionieri che lavorano.
In primo piano il prigioniero di guerra nell’atto di percuotere, con un martello, un blocco di pietra. In secondo piano, al centro, il soldato di guardia colto nell’atto di riposare, la mano destra a sostenere il viso, mentre la sinistra accoglie un “bastone” che è stato, per i prigionieri di guerra, l’abusato “tutore” delle loro fatiche. Nei piani successivi due prigionieri, il primo conduce una carriola ricolma di pietre, il secondo trasporta un peso sulle spalle.
Abbiamo riportato nell’immagine precedente l’ultima parte del corposo articolo dell’Avanti! del 29 settembre 1919 titolato: Bastone e palo.
Nel pezzo sopra riportato[16] si legge:
“Ma non poteva mancare la cattiveria, la barbarie degli uomini. Il militarismo non ne può fare a meno. È il suo sangue, la sua bava. Si doveva mantenere se non la vita, la disciplina dei poveri infelici. Non c’era paglia per giaciglio, mancava il pane, il latte, le medicine, in compenso abbondava il bastone. E non l’austriaco. I carabinieri sorvegliavano col randello alla mano ed ogni minima infrazione alla disciplina eran legnate sulla testa, sulle spalle dei poveri disgraziati. Taluno di questi dopo aver riempita la tazzina dell’acqua e bevutala, accostavasi un’altra volta alla cisterna per averne dell’altra: lo distoglievano le potenti randellate della benemerita che aveva prescrizioni di far osservare e che giudicava dalla fame e dalla sete dei malcapitati.
Veniva trovato un prigioniero con una razione di pane in più sotto la mantellina, i territoriali lo tramortivano a pugni o a legnate. Infinite scene di bestiale violenza a cui ribellavasi l’animo di ogni persona che non tenesse al posto del cuore una pietra, succedevansi ad ogni giorno, ma non potevano farsi cessare perché il regime del bastone, più che tollerarsi era, può dirsi prescritto dal Comando del Presidio. Il generale Ferrari successo al Fadda, diceva senza reticenze agli ufficiali che il bastone era il vocabolario col quale dovevasi discorrere coi prigionieri. E nei campi, taluni ufficialetti, per dimostrare forse la loro energia ed acquistarsi benemerenze non ristettero dal legare al palo molti disgraziati colpevoli di voler saziare la lro fame o di non arrestarsi ai confini delle prescrizioni superiori.
Udivansi taluni ufficiali, specie anziani e richiamati dalla riserva, pubblicamente inveire contro i prigionieri, gridare che bisognava, che era necessario farli morir tutti, lasciarli crepar di fame, che sarebbe stata opera meritoria e patriottica non farne tornar alcuno in patria. E bisognava reprimere nel cuore il desiderio di urlare in viso a tali bestie umane, a tali …. esseri pervertiti tutto il nostro disprezzo.
Dei trentamila prigionieri imbarcati a Valora seimila soli si salvarono e passarono, a contagio placato, in Francia. Quindicimila circa trovarono la fine nell’isola dell’Asinara.
Settembre 1919
Un capitano reduce dell’Asinara.”
L’articolo viene riportato per offrire al lettore uno sguardo d’insieme sulla situazione di precarietà che regnava sull’isola e per mostrare il grado di abiezione in cui si viveva, nel momento in cui la bomba del conflitto mondiale mostrava tutta la sua crudeltà.
DOMANDE INEVASE
Endre Ady[17] così esprimeva poetici dubbi che avrebbero avuto una sola, univoca e tragica risposta, nella prima guerra mondiale:
“Fu sempre così avversa qui la sorte?
Lungo le rive del Danubio non hanno mai vissuto
popoli felici, forti, disposti al riso?”
/…/
Vera la maledizione,
che molti di noi ormai sospettano, vera del tutto:
da quando mormorando lui prese a scorrere
giammai qui ebbe a vedere popolo felice.
La terra danubiana è un triste parafulmine,
una gogna fatta apposta
per mezzi uomini e mezze nazioncine
dove le ali vennero recise
e dove funeree sono le sere.
A completamento dell’accurato esame della terracotta di Campo Perdu, si è eseguito l’ingrandimento di una porzione della parte destra del bassorilievo, per evidenziare alcuni segni apposti nell’argilla prima della cottura.
Nella seconda immagine b) è stata evidenziata, dal tratteggio, una iscrizione che appare troppo indefinita per poter essere riconosciuta come firma dell’autore.
CONCLUSIONI
Residuano dubbi relativi al nominativo dell’autore della terracotta, nonché sull’identità dell’anonimo visitatore del Parco Nazionale dell’Asinara che, prima del 28 novembre 2020, ha voluto ricondurre questa pregevole opera al luogo della sua origine.
Resta l’interrogativo sulla sigla apposta a matita nel retro del bassorilievo che lascerebbe presumere il richiamo dell’autore, alla collocazione in un registro dei prigionieri austroungarici, che hanno trascorso all’Asinara buona parte del periodo di prigionia.
Le vicissitudini umane di queste moltitudini di persone hanno lasciato un segno indelebile non solo negli scritti, in parte citati, anche nei luoghi stessi, teatro dei tragici avvenimenti accennati e nei lavori eseguiti dai prigionieri di guerra che, fino ad oggi, ci sono pervenuti.
Valentino Semi, nato a Sturie delle Fusine (Gorizia) di professione insegnante, come cittadino austriaco fu mobilitato e spedito al fronte, fu fatto prigioniero di guerra dai Serbi e ha trascorso all’Asinara la sua prigionia, riuscì a riportare a casa la sua vita ed ha scritto un diario accorato.
A natale del 2016 nel concludere il suo testo, scriverà:
“La guerra è crudele, non risparmia nulla e nessuno. Dovunque sparge desolazione e dolore. Richiede sacrifici, privazioni, rende gli uomini monchi e infelici, sebbene vi siano delle istituzioni create appositamente per alleviare le sofferenze della tribolata umanità. Nei momenti supremi, anche in mezzo alle battaglie, la carità corre in sollievo di quanti soffrono; reca grucce ai mutilati, pane agli affamati, acqua agli assetati, conforto ai morenti.
Durante la nostra disastrosa traversata mancammo di tutto. Ma alla fine eccoci qua.
Dobbiamo quindi sperare ancora. Forse il peggio è passato.
E se non lo fosse? [18]
E’ fervido l’auspicio che, chi ha ricondotto la terracotta nel suo luogo d’origine, possa prendere visione del presente lavoro e abbia la possibilità e l’opportunità di farsi vivo con l’autore, o con la Direzione del Parco Nazionale dell’Asinara, per circostanziare e testimoniare la volontà, così discretamente espressa.
09 settembre 2021 carlo hendel
(mail: carlohendel@gmail.com)
Ringraziamenti
1. Si ringraziano tutti coloro che hanno voluto contribuire, con la pazienza e la loro disponibilità, alla preparazione e redazione di questo testo.
2. Una menzione particolare si rivolge a Ivan Chelo per il ritrovamento della terracotta e per la potenza espressiva delle sue immagini che ha voluto affidare in esclusiva, nella convinzione che, da quelle, possa derivarne un utile enorme all’isola dell’Asinara che tanto ama.
3. A Carlo Gianotti che ha cortesemente offerto le fotografie delle terracotte custodite gelosamente e al famoso nonno Clementino Bonifacino che fu, per lungo tempo, indiscusso protagonista del servizio di “Posta e Trasbordo persone” dalla terra di Sardegna al suolo dell’Asinara con la sua “spagnoletta carlofortina armata a vela latina” a cui va il grazie sentito dell’autore.
4. A tutti coloro che divulgheranno l’opera e la storia dell’Asinara, e vorranno in questo frangente appassionarsi e cortesemente apprezzarne l’autenticità, tesa a dimostrare come, da un oggetto di così piccola dimensione, si possa, scavando negli archivi della memoria e procedendo nelle ricerche, riscoprire parti di quella Storia necessaria all’Asinara a ricucire gli strappi e a progredire nel futuro. Un grazie ci tengo a rivolgere anche a Gianmaria Deriu, instancabile divulgatore della parte storico-penitenziaria.
6. Un ultimo tributo, non per questo meno affettuoso, all’amico Gianfranco Massidda, che pur non partecipando a questo lavoro, è unanimemente riconosciuto quale “memoria storica dell’Asinara” e la cui figura non teme confronti di sorta.
Pregevole lavoro di accurata ricostruzione. Grazie per la condivisione