Siamo a giugno del 1917,
all’Asinara ormai il colera, come le munizioni inesplose, è divenuto quasi un residuato bellico, uno strascico doloroso che si cerca inutilmente di ricacciare indietro nei meandri dei ricordi più profondi perché faccia meno male.
In quella guerra, che un almanacco tedesco dell’anno 1915 (Kürschners Jahrbuch) soprannominò “grande”in opposizione alla “piccola guerra” fatta di combattimenti limitati, nelle retrovie o nelle vie di collegamento, moltissime persone (oltre 9 milioni) morirono sotto il fuoco degli eserciti nemici e si registrarono anche 7 milioni di vittime civili, tanti esseri umani perirono in conseguenza delle gravissime privazioni fisiche e psicologiche subite.
Il lavoro coatto.
L’articolo 6 della Convenzione dell’Aia stabiliva che gli Stati belligeranti potessero utilizzare come lavoratori i prigionieri di guerra secondo le capacità e le attitudini, fatta eccezione per gli ufficiali.
Non avrebbero dovuto essere impiegati direttamente in operazioni belliche (il loro utilizzo sarebbe dovuto essere oltre i 30 chilometri dalla linea del fronte), ma si possono rintracciare molte informazioni dei prigionieri che lavoravano in zone esposte al fuoco.
Tipi di lavoro
Anche i militari italiani catturati dall’esercito Austro-Ungarico venivano utilizzati fuori dai campi di prigionia per opere di costruzione, di scasso, di trasporto dei materiali, lavoravano anche 14 ore al giorno, si alzavano all’alba per percorrere lunghe distanze a piedi; la sera il numero di coloro che rientravano nei campi era sempre inferiore (Procacci “ Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra“).
Tra i prigionieri occupati nelle industrie private, la sorte peggiore fu riservata ai minatori di zolfo, ferro, carbone, piombo e rame.
Molti furono i soldati francesi prigionieri in Germania che vennero spediti in miniera ed il 40% di coloro che vennero rimpatriati al termine del conflitto risultarono inabili al lavoro a causa di menomazioni o di malattie respiratorie.
Il titolo di questa parte dell’Odissea infinita dei prigionieri Austro ungarici non vuole sollecitare il lettore a trarre conclusioni affrettate e generalizzate, ma è però possibile affermare, con l’autore del libro “I dannati dell’Asinara” Luca Gorgolini”, che l’accesso al lavoro esterno all’Asinara “non determinò un miglioramento delle condizioni di vita dei prigionieri”.
Le “Compagnie di lavoro”
Spinti dalla mietitura incombente, furono i proprietari terrieri, i latifondisti i primi interessati alla manodopera dei prigionieri da utilizzare nei lavori agricoli.
Su tutto il territorio italiano si costituirono 32 “Compagnie di lavoro” composte da 200 prigionieri ognunache impiegarono, per questa attività, 6400 uomini.
Con il trascorrere dei mesi le richieste aumentarono sino a giungere ad occupare 130.000 prigionieri (Circolare Spingardi) di cui 60.000 utilizzati in ambito agricolo, 30.000 nel settore combustibili, 7.000 nei lavori stradali, costruzioni e ferroviari, 2.300 nei rimboschimenti e 2.000 nelle miniere.
Alle Ferrovie dello Stato verranno affidati oltre 2.000 prigionieri e all’Ansaldo di Genova vi lavoreranno oltre 1.000 prigionieri.
Nel Campo di prigionia dell’Asinara
In altra parte di questo sito, già negli articoli precedentemente pubblicati, abbiamo trattato questo tema, ma sul punto convergono due testimonianze quella di un celebre prigioniero Josef Sràmek il 26 marzo 2016 nel suo diario riferisce che “Gli italiani ordinano di costruire una casa dopo l’altra, noi portiamo mattoni, pietre e assi di legno“.
A beneficiare dell’apporto dei soldati confinati all’Asinara furono sopratutto le aziende agricole maggiori, specie quelle i cui proprietari potevano contare su legami importanti con personalità politiche. Come nel caso dell’Azienda Vinicola di Erminio Sella, nipote di Quintino Sella ed Edgardo Mosca, situata in prossimità di Alghero.
Nell’estate del 1916 arrivarono nell’azienda vitivinicola, provenienti dall’Asinara 130 prigionieri, i quali “alloggiati nei cameroni lasciati vuoti dagli operai, furono subito impiegati a sgherbire la macchia mediterranea (in sardo-logudorese sgherbire equivale a tagliare le frasche ingombranti in una selva o nei viottoli di campagna) “in gran scale” e nella “bonifica antiacridica (gli Acrididi – Acrididae MacLeay, 1819- sono una famiglia di insetti ortotteri del sottordine Celiferi fonte wikipedia) genericamente detti cavallette”.
Un altro prigioniero, Josef Robinau ci narra l’odissea di 60 uomini e sei guardie italiane il 6 giugno 1917:
“Ci hanno portato in stazione alle sette di mattino e siamo rimasti sul treno fino alle sette di sera. Poi abbiamo marciato per un’ora e mezzo e siamo stati alloggiati in una stanza. Il nostro lavoro consiste nel regolare il corso del fiume con pala e carriola. E’ un lavoro duro che dobbiamo fare senza colazione. A pranzo ci danno 25 maccheroni e un litro e un quarto d’acqua. Il giorno di San Pietro mi sono ammalato gravemente e sono stato costretto a rimanere coricato per due settimane. Dato che tutti si erano ammalati siamo tornati all’Asinara il 24 giugno.“
Il Generale Carmine Ferrari (Comandante del Campo di Prigionia) nel suo diario, il 22 aprile 1916 afferma di aver creato numerose squadre di:
– muratori
– sterratori
– giardinieri
– macellai
– panettieri
– addetti ai trasporti
ed elenca una serie di “professionalità che, sull’isola dell’Asinara, avevano contribuito alla realizzazione dei manufatti:
falegnami,
maniscalchi,
fabbri,
pittori,
scultori,
mosaicisti,
musicisti,
lavandai e
modellatori.
Lo scopo dichiarato dal Gen. Ferrari era quello di utilizzare le capacità individuali per raggiungere traguardi collettivi e risollevare gli spiriti dei prigionieri profondamente depressi in quei frangenti. Più prosaicamente possiamo anche presumere che, tenendo costantemente impegnati i prigionieri, questi non avrebbero avuto tempo e modo di pensare a ribellioni e/o fughe.
Le modalità di utilizzo dei prigionieri erano rigidamente stabilite dalle autorità militari per mezzo di disposizioni inviate ai comandanti dei distaccamenti (a lato copertina e pag. 8 concernente l’orario di lavoro di otto ore compresi i viaggi).
Al di là di quello che era stato codificato, la convinzione è che furono rarissime le eccezioni per cui il “richiamo a produrre per se e per altri” (ricordiamo che il lavoro era obbligatorio) abbia significato per il prigioniero una riappropriazione della propria dignità.
Lo stivale non rappresentò un contesto ambientale sensibilmente diverso da quello già ricostruito in altri Paesi coinvolti nel conflitto.
Nel giugno del 1916 i superstiti, ormai ristabilitisi, a scaglioni ripartirono dall’Asinara, il grosso del contingente fu preso in carico dalla Francia che premeva per avviare i prigionieri al lavoro coatto.
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