Era l’anno 1915 …
… ne abbiamo parlato diffusamente, con vari articoli in questo sito.
Si tratta del “periodo austro ungarico” in cui la nostra isola dell’Asinara fu risucchiata, suo malgrado, dalle propaggini di una guerra che, ironia della sorte, venne chiamata la “GRANDE GUERRA”.
Numerosi saranno ancora gli articoli che racconteranno il periodo 1915-1916 questo l’accadimento si ritiene che possa essere considerato il più importante nella vita dell’Asinara, se si esclude l’iniziale allontanamento forzato degli abitanti, sopratutto per il numero di persone coinvolte…… per le persone che, in questi frangenti, hanno perso la loro vita, ma anche per tutti coloro che hanno visto nella nebbia del periodo storico, come un miraggio, il ritorno alla loro casa agli affetti familiari alle attività di lavoro.
La nebbia, per tanti prigionieri, non si diradò mai e, pur essendosi salvati dal colera, non fecero più ritorno nei luoghi d’origine a causa degli accordi internazionali di guerra, che li videro trattati come insostituibile “bottino di guerra“, una “forza lavoro” da distribuire nei paesi belligeranti a sostituire gli uomini caduti in guerra.
Il pensiero oggi però si sofferma sugli uomini che, molti anni fa, vissero e sopratutto quelli che morirono sull’isola e che Giovanni Terranova e Marco Ischia nel loro libro “Dai Balcani all’Asinara” quantificano incredibilmente nel numero complessivo di 8.200 persone.
La speranza più grande è che sempre più persone possano comprendere che la Sardegna in generale e l’Asinara in particolare, non hanno soltanto il mare cristallino, i luoghi da fiaba, ma conservano tradizioni antiche e un immenso patrimonio storico-culturale che illustri studiosi, hanno portato e porteranno alla luce.
Io vorrei condividere queste idee soprattutto con i non addetti ai lavori.
Esiste un patrimonio di conoscenza meraviglioso, da diffondere e tutelare che, se protetto e ben gestito, aiuterà a comprendere correttamente il passato e diverrà anche occasione per promuovere e incrementare il turismo culturale nella nostra poliedrica Asinara.
In quel periodo l’Asinara brulicava di persone, in rada a Cala Reale, come a Tumbarinu e a Fornelli sostavano imbarcazioni piccole e grandi piroscafi, pontoni, numeri incredibili ed insostenibili per l’esistenza dell’isola.
I campi di prigionia erano stati collocati in ogni dove, Stretti era punteggiata da tende e ricoveri in muratura, Fornelli venne trasformata in una immenso sacrario che, a malapena, riusciva a occultare alla vista, le cataste di cadaveri.
Per coloro che sbarcarono sull’isola poteva sembrare di essere giunti in uno dei gironi infernali danteschi.
Era la fine dell’anno 1915 quando si ebbe la certificazione della presenza del vibrione del colera sull’isola.
L’Italia fu tragicamente presa alla sprovvista anche dalla informazioni che la politica dell’epoca, forse in modo subdolo, aveva diffuso in cui si ipotizzava un afflusso di circa 5.000 prigionieri austro ungarici, ovviamente il dato non era corrispondente alla realtà di quelle 25 mila persone che sbarcarono, dai vari piroscafi, portando con loro gravi problemi sanitari.
Le strutture ricettive quindi inizialmente furono predisposte per ricevere un numero inferiore di persone. I piroscafi che giunsero a Cala Reale gettarono l’ancora in rada ed attesero l’autorizzazione allo sbarco.
I fabbricati esistenti all’epoca erano l’Ospedale centrale (con la disponibilità di una cinquantina di posti letto) un forno crematorio (capace dell’incenerimento di un solo cadavere nelle 24 ore) ed alcuni chioschi in muratura per l’alloggiamento di pochi ospiti cosiddetto “di prima classe”.
In altro articolo parleremo dei fabbricati sparsi nei pressi di Cala Reale ed ubicati nei “Periodi” ove però si potevano racimolare posti per ulteriori 500 persone e di un giovanissimo sottotenente commissario di prima nomina Guido Scano, inviato con il compito di ricevere e smistare le merci in arrivo….
Saltiamo, a pie pari, tutto il periodo in cui si iniziò la riorganizzazione della struttura e raggiungiamo quel momento storico in cui, fortunatamente non si verificarono più decessi, sull’isola, a causa del colera.
I campi sono tutti avviati, i prigionieri stanno via via riconquistando le forze attraverso una alimentazione appositamente predisposta per risollevarne le condizioni ed allora la struttura di Comando si prefigge di incrementare le attività di abbellimento dei Campi, la formazione di aiuole, la costruzione di ricoveri e di cisterne per garantire una maggiore disponibilità di acqua e, nel fervore generale, si predispone anche la costruzione dei luoghi di culto.
A Cala Reale sin dal gennaio 1916 fu costruita una cappelletta in legno e tela, ma il più delle volte a causa del maltempo, la messa dovette essere celebrata nell’atrio della stazione sanitaria, o in uno dei padiglioni-ospedale costruiti in prosecuzione dei fabbricati di terza classe.
A Fornelli la cappella costruita provvisoriamente fu, a seconda delle necessità, trasportata da un punto all’altro del vasto campo e degli ospedali.
A Cala Reale non appena fu possibile, sia in considerazione della dignità del culto, che per soddisfare i desideri dei cappellani, furono gettate le fondamenta di una cappella in muratura, attorno alla quale, sgomberato il terreno dalle rocce, divelti gli arbusti, furono disegnati dei giardini.
I prigionieri di guerra con molta volontà lavorarono a quell’opera.
Esterno della Cappella
Noi seguiremo, passo passo, l’estensore del documento redatto dall’Esercito (Relazione del Gen. Ferrari pag. 407 e segg.) mentre ci descrive, in modo molto accurato, la cappella tanto da farci immaginare l’intero progetto.
“Un piccolo, ridente, luminoso edifizio quadrato di metri 4,50 di lato, sorse alle spalle dell’antico ospedale dell’Asinara, su un largo spiazzo ripulito dagli arbusti e liberato dai massi. Tale spiazzo fu fatto per completare la pulizia del terreno che fra il Comando e l’ospedale del lazzaretto sera stato – come già si disse – ridotto a giardino.
La cappella sta di fronte al mare: tutto intorno un giardino inglese a viali e ripiani erbosi, ornati di fiori e di fichi d’india. Un viale centrale cosparso di piccola ghiaia, porta nella piazzetta della cappella. Ove il viale termina e la piazza si allarga, sorgono su piedistalli, le statue di S. Efisio e di S. Gavino, martiri guerrieri cristiani, patroni della Sardegna. Piedistalli e statue sono in cemento, opere del prigioniero di guerra György Nemess artista ungherese, lo stesso che realizzò la scultura in cemento, colui che aveva già eseguito altre opere simili come “il lungo viaggio” una composizione statuaria per il campo di prigionia di Campo Perdu.
La cappella, nel centro di una piazzetta cosparsa di minuta ghiaia, è in blocchi di cemento e l’architettura e le decorazioni, di un grazioso insieme armonicamente fuso, riescono grate alla vista. La facciata poggia su uno zoccolo di quattro gradini, i quali, girando su gli angoli, han termine su i muri laterali del piccolo edifizio
In un angolo del tetto, un piccolo e graziosissimo arco che si eleva a guglia, sostiene una campanella donata dal Papa (1).
Una semplice porta in legno, rettangolare, con due croci alla base, chiude la cappella.”
“L’interno della cappella è semplice e nitido.
Un pavimento in piccole pietre di mare, disposte come un grezzo mosaico, di color bianco, porta delle stelle a cinque punte e delle croci greche in pietruzze nere. Nei quattro angoli interni vi sono delle colonnine rilevate, con capitelli dorici.
Tre finestre danno la luce: le due laterali sono ad arco acuto, sostenuto da due graziose colonnine, ed hanno vetri istoriati, rappresentanti l’uno l’Immacolata chiusa in un fregio a fiori e con la scritta: “Regina sine labe originali concepta”, l’altro, S. Francesco d’Assisi che riceve le stimmate (a lato l’ immagine dell’affresco attribuito a Giotto del conferimento delle stimmate): la finestra della parete di fonte a chi entra è più in alto, di forma circolare, come un medaglione, con vetro dipinto, rappresentante Cristo che libera dalle proprie mani una colomba, portante nel becco un ramo di olivo e la manda verso i campi e le città in fiamme ed in rovina che si vedono sullo sfondo del medaglione.
Il dipinto esprime un desiderio, un bisogno, una nostalgia di riposo, di pace, di serenità.
Questi vetri tutti, sono stati dipinti, con efficace colorazione dal pittore Ungherese Saaz, prigioniero di guerra.
All’esterno, gli archi …….
A destra di chi entra nella cappella ……….
Nel centro della cappella è l’altare in cemento, …….
Un drappo di grosso damasco rosso, scende, a mezza parete, dietro l’altare, dando rilievo alle cose che sul medesimo sono disposte.
Il tabernacolo, le stoffe, gli arredi sacri, candelieri ecc furono donati dal Santo Padre(1) e dal Vescovo di Sassari.”
17 maggio 1916 – La benedizione della nuova Cappella
Il giorno 15 maggio 1916 giunse monsignor Cleto Cassani, perché Vescovo di Sassari, per dare ai prigionieri i doni inviati dal Santo padre (1), e per impartire la loro benedizione Apostolica.
La dedica delle statue poste a protezione ideale della Cappella fu pensata per rendere omaggio alla terra di Sardegna che aveva accolto tutta quella umanità dolente.
Monsignore vescovo giunse all’Asinara con la Regia nave Eridano, verso le ore le nove del mattino e prendeva alloggio al presidio, poi verso sera si recava a Cala D’Oliva per visitare quella colonia penale.
L’indomani 16, egli si recava agli Stretti, dove, assistito dal cappellano militare dell’Asinara, dal cappellano di Cala D’Oliva e dal parroco di Porto Torres, benediceva sia la cappella che il cimitero.
Mons Cassani visitava quindi gli accampamenti degli Stretti, di Tumbarino, ove si tratteneva a lungo con i prigionieri.
Per ricordare questo giorno monsignor Cassani rimetteva ad ogni prigioniero uno oggetto sacro, dono del Papa. Ogni prigioniero ebbe anche un pacchetto di sigarette.
Infine, il giorno 17, alle 10.00, preceduto dal clero, il vescovo partì in processione con mitria e pastorale, dalla sede del Comando per dare la benedizione alla cappella di Cala Reale, e dopo le funzioni di rito, dopo un elevato discorso, impartì la benedizione all’altare e celebrò la Messa.
Subito dopo il prelato ripartì dall’Asinara.
LE STATUE di S. EFISIO e S.GAVINO
Tutte le opere artistiche realizzate dai prigionieri austro ungarici furono costruite con l’unico materiale disponibile, il cemento e, per sostenere quelle più imponenti, il cemento fu “armato” con strutture metalliche, presumibilmente in ferro.
Ovviamente anche le due statue antistanti la cappella di Cala Reale, dedicate ai Santi Gavino ed Efisio, dell’altezza complessiva (compreso il basamento) di circa tre metri, furono realizzate in cemento che fu sostenuto dalla quantità di ferro necessaria a sorreggerle prima e a sostenerle, durante il tempo, poi.
Però questa statue erano collocate all’aperto e quindi esposte all’inclemenza del tempo.
Il suo autore l’ungherese Georg Vemess non aveva sicuramente previsto che le statue avessero dovuto fare la guardia alla cappella per più di 100 anni.
L’artista ungherese, eccellente nell’utilizzo del cemento armato, non aveva forse considerato che all’Asinara, oltre al vento impetuoso e agli sbalzi termici notevoli, un ulteriore elemento discriminante: la salsedine marina che, combinata con i primi due, avrebbe costituito un potente ordigno ad orologeria in grado demolire i più solidi manufatti.
Dopo le prime lesioni alle strutture dovute all’escursione termica diurna e stagionale, è subentrata, prepotente, l’ossidazione del ferro; l’aumento volumetrico delle barrette metalliche ha provocato ulteriore dilatazione e fratture nel cemento. Fortunatamente i bassorilievi, pur essendo essi stessi in cemento, non sono stati però “armati” con ferro e questa evenienza ha contribuito a farli giungere fino a noi in condizioni migliori.
Per quello che è stato possibile si è proceduto all’ingrandimento delle immagini delle statue, ma i pixel son scarsissimi e mi scuso con il lettori per la qualità delle fotografie.
Le foto che inseriremo di seguito, riprendono due differenti gruppi di persone che posano vicino la Statua di S. Gavino.
La foggia degli abiti e, nella prima fotografia, anche la divisa del militare (copricapo) potrebbe far risalire la data dello scatto attorno al 1930, ma tra le due immagini, è quella con le cinque signore che appare datata più recente poiché la statua è apparentemente in condizioni peggiori, rispetto alla precedente (mancanza del braccio sinistro che, in origine, impugnava lo stendardo con la croce).—-
Il Parco Nazionale dell’Asinara con la collaborazione della Soprintendenza di Sassari ha encomiabilmente proceduto, dopo qualche anno dalla presa di possesso dell’Asinara, al restauro della Cappella salvandola da sicuro decadimento e glie ne va dato atto.
Sarebbe estremamente interessante continuare l’opera anche per ulteriori manufatti (leggasi Stufa Giannolli) e per ricomporre la zona antistante la cappella, così come è stata descritta nella più volte citata “Relazione del campo di prigionieri colerosi all’isola dell’Asinara nel 1915-16 ediz. 1929″.
Voltiamo pagina ed apriamo la porta della cappella.
Con l’aiuto dell’obiettivo di Ivan Chelo, ora apriamo la porta in legno della cappella, per procedere ad illustrare, elemento per elemento, ogni manufatto.
Le immagini sono state scattate nel maggio dell’anno 2016.
La porta è stata spalancata…. davanti all’altare, oggi qualche raro turista si attarda estasiato dalla inaspettata visione.
Molti oggetti dell’arredo originario, collocati all’interno della cappella, sono scomparsi (tabernacolo ed il Cristo in cemento su croce in legno), evidentemente il tempo trascorso non ha avuto rispetto……
Nel centro della cappella è l’altare in cemento, sopra una base con croce greca nel centro, a traforo; la mensola poggia su due colonnine a spirale; il tabernacolo è in marmo con la porticina in bronzo, che ha dei rilievi nei quali sono rappresentati la fede col calice e la croce, e degli angioletti; sul tabernacolo vi è un Cristo in cemento su croce di legno.
Un drappo di grosso damasco rosso, scende, a mezza parete, dietro l’altare, dando rilievo alle cose che sul medesimo sono disposte.
Il tabernacolo, le stoffe, gli arredi sacri, candelieri ecc furono donati dal Santo Padre (1) e dal Vescovo di Sassari.”
A destra di chi entra nella cappella, una colonnina a spirale in cemento, sostiene la pila dell’acqua santa, sormontata da un rilievo murale, rappresentante una testa d’angelo.
L’intero manufatto è visibile integralmente nell’immagine che segue.
Quello che più impressiona è il timpano centrale della facciata principale, sopratutto se si tiene presente che il bassorilievo fu realizzato totalmente in cemento ed è opera del prigioniero di guerra György Nemess importante artista ungherese, lo stesso che realizzò la scultura in cemento denominata “Il lungo viaggio” nell’accampamento di Campo Perdu, ma proseguiamo nella descrizione:
“Quattro colonnine in cemento, con basi e capitelli dorici, sostengono la parte superiore della facciata, foggiata a timpano, nel centro del quale, poggiante su le due colonnine centrali, è una lunetta ad arco acuto, in cui è chiuso un bassorilievo in cemento, rappresentante la Pietà; opera di buona fattura del prigioniero stesso che oltre quelle accennate, foggiò le due statue di cui si è già detto (S. Efisio e S. Gavino n.d.r.).
La vergine sostiene il corpo abbandonato di Gesù; la Maddalena e Giuseppe di Arimatea effondono, presso le due principali figure il loro infinito dolore.
L’angoscia della Vergine è espressa in caratteri romani alla base del rilievo, con un distico tratto dalle profezie di Geremia:
“O vos omnes, qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus.”
E come un monito a sopportare ogni dolore, poichè esiste sempre qualche strazio che, tutti gli altri, supera.
I Bassorilievi esterni
All’esterno, gli archi delle due finestre laterali sono segnati da due curvi rami di spine, ed al vertice di uno di tali archi vi è, in rilievo, la testa della Maddalena, nell’altro quella di Gesù.
L’ultima immagine inserita è tratta dalla “Relazione di Carmine Ferrari” e riporta le vetrate dipinte che, ovviamente, non hanno retto il trascorrere dei decenni.
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