Il condannato Vincenzo C. era arrivato all’Asinara il 22 marzo 1920.
È il suo estratto matricolare a raccontare di lui.
Nato in provincia di Catania nel 1883, figlio di Grazia e Giuseppe, faceva il muratore.
Barba e capelli neri, celibe, era stato condannato per omicidio preterintenzionale a quindici anni.
Gli mancava poco, per ritornare libero, un paio d’anni.
Ma Vincenzo, dalla colonia penale dell’Asinara, uscì cadavere, ucciso da un altro detenuto.
In due involucri, quello che viene repertato sulla scena del crimine: una stanza del dormitorio del terzo periodo.
Si tratta di cinque mezzi toscani, tre sigari napoletani e altri tre mezzi toscani appartenenti all’assassino, ma ritrovati alla vittima e ancora due camicie, una mutanda, un paio di scarpe, un berretto, un pantalone di tela, una giubba. E un coltello.
Tutto intriso di sangue, tutto appartenente all’assassino.
Sono le 8 di mattina del 22 gennaio 1921, l’ultimo giorno di vita di Vincenzo.Mentre le squadre dei detenuti si preparano per andare a lavorare, da una finestra, le urla di uno di loro richiamano un superiore che, accorso, si trova davanti a Nicola V., nel vano tentativo di scappare, e a Vincenzo, che giace a terra nel proprio sangue, accoltellato con talmente tanta furia che la lama, di dodici centimetri, si è spezzata all’altezza del manico.
Adagiato nel suo letto, Vincenzo ha solo il tempo di sussurrare che non aveva fatto nulla.
E muore.
È l’enorme quantità di sangue a parlare.
Sebbene l’analisi delle proiezioni ematiche sia di là da venire, il sanitario chiamato sulla scena riesce a ricostruire le fasi dell’aggressione.
Parla il sangue sui muri, sul pavimento, sul letto.
E parla la divisa che indossava l’aggressore.
La colluttazione di cui dirà non c’è mai stata, non esistono elementi che indichino una lotta né esistono tracce di colpi di arma da taglio.
Vincenzo è stato aggredito nel sonno. Non ha minacciato o colpito per primo.
Nicola mente su tutto, ogni parola è confutata.
Il coltellino che aveva, Vincenzo lo usava solo per tagliare i fichi d’India, e quella mattina non lo ha mai impugnato.
Il perché di quella morte, invece, lo spiega Nicola l’indomani. “Mi sono accorto che mi mancava del tabacco“, dice, “e ho pensato che me lo avesse rubato un compagno, Giacomo G.
Gli dissi che sarebbe bastato chiedermelo, che glielo avrei dato volentieri, ma questi, per risposta, prese una bottiglia da sotto al letto e minacciò di tirarmela contro“.
Vincenzo, che stava seduto sul proprio letto a fumare, prese le sue difese, stando al racconto di Nicola.
Tirò fuori dalla giacca un coltello, glielo puntò e i due iniziarono a lottare sino a che Nicola si trovò spalle al muro. “Allora presi il coltello dalla tasca e iniziai a colpirlo, senza capire cosa stavo facendo“, continua Nicola nell’interrogatorio.
Poi, cambia versione.
Quando la guardia lo trovò sulla porta mentre cercava di scappare, stava solo cercando di difendersi dagli altri detenuti che volevano picchiarlo.
Diversa, la testimonianza di Giacomo.
Parla di un litigio che era iniziato il giorno prima dell’omicidio, sempre a causa del tabacco. E che quella mattina, invece, Nicola, che si era alzato prima della sveglia, si era messo a camminare su e giù per la stanza e poi, all’improvviso, si era scagliato con un coltello da cucina contro Vincenzo, che ancora dormiva.
Che sotto i colpi cadde dal letto, ma non riuscì a rialzarsi.
E che lui e un altro detenuto avevano tentato di fermarlo, tanto che l’altro era stato ferito alla pancia, ma tale era la collera di Nicola che non riuscirono a fare altro che chiedere aiuto dalla finestra.
Sei coltellate, è scritto nell’autopsia.
Collo, reni, fegato. Una al cuore talmente profonda da arrivare al polmone.
Vincenzo è morto per dissanguamento.
Il 16 novembre 1921, la Sentenza: Nicola è condannato a ventun anni.
Fonte documentale: Archivio di Stato di Sassari
Periodo storico: anno 1920
Autrice: Lorena Piras
28.02.2020
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1) Una drammatica evasione