Pasqua 2017, una data che resterà impressa nella mia mente, quella del 16 aprile.
Ero a Trabuccato, seduto sulla sabbia al sole tiepido di primavera, al riparo dal vento nel piccolo golfo che viene inghiottito dalla Cantina della Diramazione.
Pochissime le persone in circolazione, il grosso sbarcherà domani, pensavo.
Ho vagato senza impegni, senza una meta precisa, soddisfatto, cercando nelle strutture, che recano evidenti le offese del tempo, un filo, un segno che mi ricollegasse all’Asinara.
Mi sono immediatamente reso conto che non ce n’era bisogno!
Guardando le rondini che si rincorrevano incessantemente, dal mare verso la terraferma, in un andirivieni ricolmo di garriti, di rincorse, di scivolate d’ala, d’impennate improvvise e ripetute, ho compreso di essere rimasto sempre sull’isola, ora so di non essermi mai allontanato neppure un giorno.
Mi hanno accolto con familiarità i colori turchesi delle acque cristalline, i fondali variopinti pieni di vita, l’immancabile vento, le colline punteggiate dall’alto fiore della ferula, quest’anno copiosa, il sole che, quando il vento cessa, muta l’aria conferendogli una scoppiettante brillantezza.
Mi aspettavo gli odori dell’isola e li ho ritrovati, puntuali, la dolce euforbia, gli aspri cisto e ginepro e su tutti l’inconfondibile elicriso, a quintali, per me l’odore dell’Asinara.
Poi, mentre il vociare dei pochi turisti sbarcati lentamente si allontanava, la voce dell’isola, che prima era un sussurro leggero, ha incominciato a parlarmi, come faceva una volta, una voce suadente, di omerica sirena che sussurrava, con il timbro lontano di una voce d’asino, trasformata dal vento, un’ode alla serenità.
Ho rivisto il film della costruzione della stalla per il toro (di razza Charollaise) che doveva incrementare la linea di sangue dedicata alla produzione di carne bovina, mi hanno atteso i graffiti, sempre più sbiaditi, realizzati dai detenuti nei locali vicini.
Ho trovato facilmente la stalla, riconosciuto le opere costruite, sono passato in punta di piedi senza spostare un sasso, mi sono intrufolato
per le porcilaie, ho superato i caprili, mi ha colpito la via di fuga per l’addetto al toro, una misura di sicurezza che avrebbe evitato il ripetersi della sciagura che, qualche decennio prima, aveva prostrato la Diramazione di Campo Perdu dove il toro aveva spinto, contro la parete, la persona addetta alla sua cura.
Due giorni prima il Direttore del Parco Pierpaolo Congiatu mi aveva gentilmente accompagnato a visitare l’Osservatorio della Memoria dell’Asinara, offrendomi l’opportunità di visionare quel primo grumo di ricordi che si è finalmente coagulato attorno alla Diramazione Centrale di Cala d’Oliva, per poi poter esprimere un parere.
Avevo ancora nelle orecchie le parole ascoltate nei contributi sonori delle persone che hanno avuto un rapporto molto stretto con l’isola, quelle dell’ex direttore Francesco Massidda, quelle dell’ex agente Gianmaria Deriu, che nella visita ci aveva accompagnato e le parole di Alberto Franceschini settantenne ex esponente di spicco delle Brigate Rosse, parole che mi hanno colpito per la loro profondità, sopratutto quando ripete, quasi sussurrando a se stesso, che il ritorno nell’isola non è mai una piacevolezza poiché lo costringe nuovamente a ripensare il suo vissuto, a chiedersi le ragioni e a darsi delle risposte non facili, non scontate, comunque dolorose.
Le storie degli uomini aleggiano leggere nei locali della Diramazione Centrale e sembrano prendere nuova vita se sfarfalla una leggera brezza che scuote dal torpore le divise degli agenti e dei detenuti animate, come per incanto, dalle folate del vento di maestrale.
Cose dal carcere
Hanno una forza speciale le “cose” inserite nei locali della Diramazione Centrale, come ben indicato dal cartello che accoglie il visitatore all’entrata e gli affida, per riflesso, le parole del filosofo italiano contemporaneo Remo Bodei (Cagliari 1938). Sono esposizioni, quelle dell’Osservatorio della Memoria di Cala d’Oliva, pensate per provocare nello spettatore una serie di considerazioni sulle quelle “cose” custodite nelle bacheche o affisse alle pareti… non già oggetti d’uso comune, o meglio non solo oggetti d’uso comune, ma elementi che spingono ogni visitatore in direzioni prefissate.
Ci sorprenderemo forse a guardare il bisturi arrugginito, la sterilizzatrice portatile, lo sgabello carcerario e a pensare a quante persone si sono sedute su quello sgabello, quante mani avranno acceso quel fornelletto…. e seguiremo la sua fiamma frizzante, ci soffermeremo a cercare di ripercorrere i tortuosi pensieri del detenuto.
Forse pensava a coloro cui aveva causato ingiustamente il danno, ai familiari, forse ai propri figli che avrebbe stretto al petto ormai troppo grandi, oppure agli amici che non avrebbe rivisto tanto presto….
L’Asinara, la nostra bellissima isola, non faceva sconti a nessuno.
Ecco sintetizzate le ragioni per cui nell’installazione sono stati definiti correttamente “cose” e non oggetti.
Il Caseificio di Cala d’Oliva
In questa parte del racconto mi sono limitato a trattare di emozioni, le notizie del caseificio saranno inserite in uno specifico articolo che parlerà delle produzioni casearie.
Quel giorno, quel 16 aprile, scendendo dalla Diramazione Centrale, abbiamo svoltato a destra nel piazzale del caseificio.
In lontananza, come il guscio di una tartaruga spolpata dal falco, mi salutava la struttura della piccola stazione meteorologica che, ai miei tempi, ci permetteva di redigere un report delle condizioni meteo giornaliere. Saliti i sei gradini del caseificio e snocciolate tutte le chiavi possibili e immaginabili, dopo un poco di tempo si è dovuto prendere atto che la serratura del portoncino bianco si stava opponendo strenuamente a che io entrassi.
Ho pensato fosse la giusta vendetta per l’abbandono di un luogo, il Caseificio da me tanto amato.
Il chiavistello interno si sentiva tirare, gracchiava disperatamente tentando si scrollarsi di dosso la ruggine accumulata, ma non voleva saperne di scorrere per spalancare l’anta.
Tra me e Carlo, ormai rassegnato, pensavo “peccato, neppure oggi potrò rientrare nel Caseificio di Cala d’Oliva…” ed avevo quasi perso le speranze quando, dopo una manovra sapiente e leggera del Direttore del Parco, con un click secco, la voce potente del Caseificio ha annunciato “si, si non mi hai visitato da trent’anni circa, ma per questa volta ti faccio entrare!!!“
Felicità allo stato puro si sarebbe riusciti a distillare dai miei occhi.
In silenzio mi sono avvicinato con il batticuore alla sala della lavorazione del formaggio, ancora molto bella, con il pavimento in lastroni di granito grezzo, ho accarezzato i doppi fondi, voltando lo sguardo a destra e a manca …. non sapevo dove e cosa guardare….
Solo le domande dei cortesi accompagnatori, di tanto in tanto, mi distoglievano, momentaneamente, da quel mare di pensieri che riaffiorava impetuoso.
Mi sono ritrovato, per un attimo, ad assaggiare la ricotta appena scolata, per vedere se la qualità fosse quella corretta, in mezzo agli sbuffi di vapore profumato di latte, ho rivisto e ricordato tutti i nomi e i volti di coloro che vi lavoravano.
Ho cercato le provette necessarie alle analisi che si effettuavano sul latte.
Poi foto, riprese, pose e, una volta fuori, le pazzie delle rondini, che erano tornate, mi hanno risalutato.
Emozioni d’altri tempi
(diario di un agronomo dell’Asinara)….. alle 7,30 del mattino uscivo dalla mia abitazione e rapidamente mi recavo, passando a fianco della Direzione, al Caseificio dove era già arrivato il “Camion dell’agricola” che, partendo dalla Diramazione di Campo Perdu, aveva trasportato insieme alle verdure degli orti, il latte della produzione giornaliera contenuto negli appositi bidoni.
L’amico Vincenzo (ovvero all’epoca l’Appuntato Denofrio che, per la sua attività di “casaro” e per il suo aspetto ieratico indubbiamente merita una pagina) immediatamente registrava le quantità di latte suddiviso in tre tipologie: bovino, ovino e caprino sulla base delle dichiarazioni scritte delle guardie a cavallo che, in prima mattina, inviavano i prodotti agrozootecnici in Diramazione Centrale da cui dipendeva il Caseificio, sia come agenti, che come assegnazione di detenuti cosiddetti “lavoranti” che, per essere assegnati al Caseificio, dovevano dimostrare, oltre al buon comportamento in ambito penitenziario anche competenze non comuni in ambito caseario ………… ma a questo argomento ho già dedicato un pezzo pubblicato il 02 maggio 2017 dal titolo “Vincenzo Denofrio il Casaro“.