Mia moglie Daniela, conoscendo la mia smisurata passione per l’Asinara, è riuscita a sorprendermi facendomi dono gradito di un dvd dal titolo “Era d’estate” di Fiorella Infascelli, un film di cui avevo ovviamente avuto più d’una notizia, sin dal momento del primo ciak sull’isola.
Sono rimasto profondamente colpito dalle parole di Manfredi Borsellino (figlio del magistrato assassinato da mano mafiosa):
“Era d’estate” – scrive Manfredi – “ è il titolo di una raccolta di racconti di uomini e donne che in quella terribile estate del ’92 erano poco più che ventenni. Tra questi c’è anche il mio: credo rimarrà l’unica volta in cui ho trovato la forza di raccontare quei 57 giorni tra Capaci e Via d’Amelio, in cui lo stato ha perso i suoi figli migliori e noi un padre meraviglioso che immaginavamo immortale”
e mi sono subito chiesto la ragione di queste semplici e tremende parole, ma lo spiega molto bene la Regista Fiorella Infascelli nel backstage, quando afferma: “E’ il film dell’attesa, l’attesa delle carte l’attesa degli eventi, l’attesa della morte”.
Le “carte” erano quelle relative al cosiddetto “maxi processo di Palermo” che si chiuse con 342 condanne, tra cui 18 ergastoli.
“Era d’estate”, con la complicità silenziosa dell’Asinara, si incunea tra le pieghe della psiche umana dei personaggi, scava e mostra le difficoltà, i pensieri, le angosce, le contraddizioni, i disagi, di queste due famiglie destinate ad entrare tragicamente nella storia italiana, nei giorni in cui restarono confinati nella “Foresteria Nuova”.
Era l’estate dell’anno 1985, ma Manfredi parla del ’92, anzi del 19 luglio 1992 in cui, dopo aver pranzato in famiglia il giudice Paolo Borsellino si recò in via D’Amelio, dove lo attendeva una bomba mafiosa che esplose cancellando, oltre la sua anche le esistenze di cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Si sottrasse alla strage soltanto Antonino Vullo perché intento a parcheggiare l’auto della scorta del magistrato.
Cinquantasette giorni prima (sono i giorni di cui parla Manfredi Borsellino) cioè il 23 maggio 1992, in un attentato dinamitardo sull’autostrada di Capaci, perse la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo ed i tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, una seconda bomba mafiosa.
Sette anni dopo quei giorni trascorsi all’Asinara, prima Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino concludevano la loro attesa e andavano all’appuntamento con una morte che ancora oggi indigna profondamente chi conosce la storia, perché quelle morti, lo sappiamo, hanno avuto origine dall’abbandono colpevole, da parte nostra (prima che dello stato) ed hanno trasformato i due magistrati in eroi del nostro tempo.
Pochi hanno compreso il disegno mafioso perverso, quei due uomini sarebbero diventati anche eroi, ma gli eroi non firmano avvisi di garanzia, mentre Falcone e Borsellino erano pericolosi come tutte le persone che, con il loro lavoro, la loro intelligenza avrebbero potuto mettere in crisi il potere mafioso.
Andavano quindi fermati subito.
Si avvicinano le ricorrenze e la rete, il tam tam mediatico riempiranno i timpani del rumore delle immagini dei due giudici sorridenti, dei due giudici abbracciati, ma io credo che questa celebrazione iconografica sia proseguire ipocritamente il volere mafioso.
Perché non è mai stata ritrovata la famosissima agenda rossa di Borsellino?
Il giudice sapeva di avere terminato l’attesa, ha sicuramente espresso la sua idea su coloro che avevano deciso di togliere di mezzo un testimone scomodo mandando contemporaneamente un monito anche a tutti coloro che avrebbero voluto seguirne l’esempio.
Chi ne è in possesso?
Chi ha coperto le omissività delle strutture pubbliche ad ogni livello?
Perché dopo venticinque anni qualcuno che sa non parla?
Avrei voluto esprimere un pensiero su quel periodo che ho vissuto, insieme ai molti abitanti dell’isola, sollecitando e raccontando stati d’animo personali e accadimenti inediti, ma la considerazione di aver conosciuto i due giudici (Giovanni Falcone lo reincontrai al Ministero di Grazia e Giustizia, quando era già diventato Direttore dell’Ufficio Affari penali) mi è rimbombato nelle orecchie, insieme alle scene del film ed alle parole amare di Manfredi Borsellino, stordendomi e riportandomi dentro il tremendo periodo in cui, tutti, vivevamo e dal quale non siamo mai usciti.
Allora credo, in fondo, che si possa onorare la memoria di queste persone solo in due modi:
– rinnovando il sostegno fattivo a tutti coloro, magistrati e forze dell’ordine che, anche oggi, continuano a battersi con coraggio contro le organizzazioni mafiose, indagando sequestrandone i profitti e seguendo le scie di denaro insanguinato che sono ormai sempre più invasive e pervasive;
– rispondendo agli interrogativi.
Ne sarebbero, sicuramente, sollevati anche i figli di Borsellino!
Carlo 21 maggio 2017