Correva l’anno 1946 quando il giovane Roberto Rossellini diresse il bellissimo film “Paisà”, passato alla storia italica come il prototipo del cinema neorealista, un’opera che rievoca l’avanzata delle truppe alleate dalla Sicilia al Nord Italia.
Anche l’Asinara ha avuto il suo Paisà.
Il faro di Punta Scorno, durante un lungo periodo posto a cavallo del 1970, come tutti gli edifici dell’Asinara, fu abitato da differenti famiglie di fanalisti, la famiglia Massidda, con la moglie Pina e la figlia Marina Rita, famiglia di cui abbiamo più volte narrato nel sito, e la famiglia di Giuseppe Grieco di origini napoletane.
La vita al faro scorreva tranquilla, e molti lettori potrebbero anche immaginare una tranquillità esagerata, opprimente, però piano piano si convinceranno che così non è mai stato.
Chi conosce le storie che si sono svolte sullo splendido palcoscenico di granito del faro di Punta Scorno e davanti le quinte meravigliose dei panorami indimenticabili della zona posta all’estremo nord dell’Asinara, sa che quello che affermo è la verità se poi voleste rivolgere una domanda a Marina Rita Massidda, allora molto piccola, vi sentirete rispondere che lei non si è mai annoiata un solo giorno sull’isola.
Nei giorni in cui il mare era calmo e l’aria pulita e ferma, voltando lo sguardo a nord si sarebbe potuta
facilmente scorgere, oltre al gabbiano corso e come un’apparizione incantata, la sagoma inconfondibile del territorio francese, la Corsica.
Il giorno si apriva alla luce del sole e già gli abitanti del faro erano in piedi per predisporre azioni da tempo programmate, d’inverno c’era il mare in burrasca a tenere deste le persone, poi accadevano eventi particolari che sconvolgevano i protagonisti e gli “spettatori non paganti”.
Come quella volta che Gianfranco Massidda rimase illeso dopo che un fulmine entrò, non invitato, nel faro e fuse la pedana di metallo sulla quale egli si trovava.
Pioveva a dirotto e Gianfranco si era recato a verificare il funzionamento della lanterna quando all’improvviso una saetta penetrò nel locale. Un lampo!
L’altro fanalista, Giuseppe Grieco, che era al piano sottostante sentì lo “scrocchio” secco del fulmine e contemporaneamente il boato fortissimo che lo accompagnò. Non comprese bene quello che stava accadendo al piano di sopra e fuggì terrorizzato, oggi direbbero “in stato di shock”, sicuro che il collega fosse morto.
Fece ritorno al faro solo molto più tardi, dopo essersi ripreso dalla spavento, accompagnato da altre persone che rimasero a bocca aperta nel vedere che Gianfranco era sopravvissuto al fulmine.
Di quel giorno Gianfranco Massidda ricorda solo “un’intensissima luce azzurra”.
Il Ministero della Marina, anche a seguito di quell’evento risoltosi fortunatamente, dispose la regolare gara di appalto per l’installazione di una gabbia di Faraday al fine di evitare che, durante i temporali, il faro potesse fare da parafulmine e attirare le scariche elettriche con gravi pericoli per coloro che lo abitavano.
Era un giorno sereno, uguale a tanti, quello del mese di maggio del 1970, quando Gianfranco e Giuseppe di buon mattino si recarono a Cala d’Oliva per rifornirsi di materie prime e per sbrigare alcune incombenze relative alla gestione del faro.
Da diversi giorni due operai della ditta che aveva vinto l’appalto della Marina, erano intenti al montaggio della gabbia di Faraday e fissavano le stringhe di rame infiggendo i chiodi con una pistola sparachiodi che, per quei tempi, era attrezzo del tutto avveniristico, ma si issavano sulle pareti solo con l’aiuto di un paranco.
Quella mattina anche i due operai avevano iniziato l’attività sollecitamente e procedevano di buona lena quando, dopo un’ora di lavoro, improvvisamente la fune del paranco si ruppe e l’operaio imbragato precipitò da un’altezza di 8 – 10 metri rimanendo a terra sulla roccia viva.
Uno schianto tremendo!
Le grida di aiuto dell’aiutante operaio vennero immediatamente percepite da Pina Sechi moglie di Gianfranco e dalla signora Caterina Fois, moglie di Giuseppe Grieco che erano in casa e che accorsero prontamente per tentare di aiutare lo sventurato.
Giunte sul posto ove c’era l’aiutante disperato vicino all’operaio caduto, bastò un’occhiata alle due donne per rendersi conto della gravità delle condizioni del poveretto, ma dovettero subito constatare che poco avrebbero potuto fare due donne ed un uomo, con un ferito in quelle condizioni di gravità.
Non sapendo cosa fare tentarono di fornire all’operaio un sorso d’acqua e qualche analgesico che avevano disponibile in casa.
Fortunatamente in quel momento si sentì in lontananza il flebile rumore di un natante che transitava al largo di Punta Scorno, era una motovedetta della Polizia di Stato. Ai tre la cosa sembrò un segno del destino e le due donne, gridando a squarciagola e agitando drappi bianchi riuscirono a farsi scorgere dai componenti dell’equipaggio che immediatamente percepì la richiesta di aiuto ed accostò nella Cala di Ponente.
Non potendo avvicinare l’imbarcazione alla banchina, a causa dello scarsissimo fondale e dagli scogli affioranti, la motovedetta gettò l’ancora ad un centinaio di metri dal molo ed un poliziotto napoletano, che si chiamava Paisà, raggiunse la riva a nuoto e corse sulle rocce dove il povero operaio ancora si lamentava flebilmente.
Paisà comprese, con prontezza quanto la situazione fosse disperata e decise non si sarebbe potuto perdere neppure un minuto.
I quattro presero una “branda” ovvero una rete del letto, di quelle pesanti, della marina, vi caricarono il ferito che ancora si lamentava e riuscirono a trasportarlo, immaginate con quale immensa fatica, fino al piccolo molo di ponente.
Ad ogni passo il calvario dell’operaio diventava più doloroso, e quello dei quattro soccorritori non era da meno; il tragitto da compiere era molto lungo e le due donne avevano bisogno di fermarsi ogni trenta passi per riposarsi dalla immane fatica e riprendere le forze.
Il sole era ormai alto in cielo e picchiava, senza pietà, sulle teste degli improvvisati “portantini”, mentre il sudore inondava il loro viso. Più volte pensarono di non riuscire, più volte furono sul punto di soccombere vinti dal peso della pesantissima branda e dell’uomo che vi era caricato, ma stringendo i denti e facendosi animo a vicenda, continuarono, metro dopo metro a percorrere la strada ripida e sconnessa.
La discesa occupò un tempo, che parve ai soccorritori, infinito, poi quando finalmente videro l’ultima curva tirarono un sospiro di sollievo, ma bisognava compiere l’ultimo tratto ripido, sconnesso e pieno di rocce prima del piccolo molo. Rallentando ulteriormente il loro avanzare, riuscirono a superare anche questo ostacolo.
Esausti e prostrati nel fisico, adagiarono la rete con il ferito di traverso sul gozzo di Gianfranco “Levante” e con questa imbarcazione, a forza di remi, poterono avvicinarsi fin sotto la pilotina che, caricato il ferito a bordo, si diresse immediatamente verso Porto Torres.
Questa eroica azione salvò sicuramente la vita dell’operaio originario del Sulcis, non le sue gambe. L’uomo trascorse, purtroppo, il resto della sua vita su una sedia a rotelle.
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