Meravigliosa l’immagine che abbiamo messo in evidenza, è del 1934 e ci è stata gentilmente concessa da Maria Franca Canu.
La fotografia (restaurata digitalmente) evidenzia una Cala d’Oliva diversa, sempre bellissima, ma molto differente da quella elegante che oggi fotografiamo in ogni momento della giornata e dell’anno.
Quella che raccontiamo, questa volta, è la storia del Caseificio di Cala d’Oliva.
Come la maggior parte dei fabbricati esistenti all’interno dell’isola dell’Asinara, anche il Caseificio ha avuto, nel tempo, molteplici utilizzazioni, in relazione alle esigenze di servizio.
Si ricorda che dopo l’esproprio del 1885 vi furono successivi processi di trasformazione antropica dell’isola, ma quello su cui focalizzeremo la nostra attenzione è il periodo post bellico (1945) anni in cui l’Amministrazione carceraria riprese il controllo dell’isola organizzando una colonia agricola penale, ottimamente organizzata e all’interno della quale si coltivavano cereali, ortaggi e vigneti, e dove i carcerati erano dediti anche all’allevamento. Attraverso tutte queste attività i detenuti erano civilmente occupati e producevano alimenti destinati non solo a sfamare la “popolazione” carceraria, ma anche le guardie carcerarie e le loro famiglie che abitavano l’isola. (1)
Il paesello di Cala d’Oliva, fino alla costruzione della Diramazione Centrale, era abitato da famiglie degli Agenti di Custodia (questa era la dizione precisa) e alcune piccole abitazioni in cui erano i detenuti, ad esempio la quasi totalità delle case, in fila, sovrastanti il porto di Cala d’oliva era destinata alla detenzione.
Nella parte superiore della piazza, nei due fabbricati posti a fianco della Chiesa si trovavano le mense, la prima per gli agenti ed una cucina per i pasti dei detenuti.
All’ora prestabilita, per due volte ogni giorno, un agente accompagnava il detenuto adibito a questo compito, che con il carretto trainato dal mulo, caricava le vettovaglie ed il cibo da distribuire e compiva il giro dei luoghi in cui gli stessi risiedevano. (2)
Per concludere il quadro storico entro cui, anche all’Asinara, si svolgeva l’attività lavorativa non si può e non si deve dimenticare che, dal 1948 e fino al 1975, prevaleva in Italia l’idea che il lavoro fosse parte integrante della pena e della sua obbligatorietà per condannati e internati.
I trasporti dell’epoca, sull’isola dell’Asinara, erano effettuati prevalentemente con l’ausilio della trazione animale per cui il latte doveva necessariamente essere lavorato nei luoghi più prossimi alla produzione.
Le Diramazioni di Campo Perdu e di Trabuccato depositavano la loro produzione di latte, nel caseificio situato a Campo Perdu (foto sopra allegata) situato lungo la strada che conduce a Cala d’Oliva in zona più centrale rispetto a quello del paesello chem comunque, era già funzionante e lavorava il latte prodotto da Cala D’Oliva e da Case Bianche.
Nel 1973 il Direttore Caccamo e l’Agronomo Pasqualino Granata chiusero il Caseificio di Trabuccato e ristrutturarono per la prima volta l’edificio di Cala D’Oliva in cui è rimasto il Caseificio lo stesso che il 27 maggio 2018, finalmente avremo nuovamente la possibilità di visitare.
Anche successivamente alla chiusura e con l’avvento del Parco Nazionale dell’Asinara, la lavorazione del latte venne effettuata, fino a quando non furono allontanati gli ultimi capi bovini.
Torniamo un attimo indietro per dire che proprio in occasione della prima ristrutturazione del 1973 furono collocati i tre doppi fondi basculanti, ma le tecnologie casearie, cioè tutte quelle fasi della lavoarzione che hanno, come fine ultimo, la produzione di formaggio rimasero sostanzialmente inalterate.
Il latte di tre specie (ovino, caprino e bovino) veniva miscelato ricavandone un prodotto ottimo, ma privo delle caratteristiche specifiche della tipologia.
Si seguiva sovente l’esempio dei pastori che lavoravano il latte direttamente in campagna con il fuoco a diretto contatto del recipiente del latte. Questo sistema arcaico, a causa della precarietà della lavorazione e delle muffe e fermenti sviluppati durante la caseificazione, procurava un prodotto di discreta qualità che però difficilmente poteva essere stagionato e doveva essere venduto rapidamente, pena il rigonfiamento delle forme.
Anche le assi in legno delle scaffalature nella cantina erano intrise di muffe e di spore che attentavano alla salubrità del prodotto.
Nel 1983 (Direzione Francesco Massidda), dopo che il responsabile agrozootecnico era stato inviato in missione nel Caseificio di Mores (SS), procedette all’indizione della gara per il rinnovamento radicale del Caseificio di Cala D’Oliva. Erano state accentrate, nel contempo, tutte le lavorazioni in un luogo igienicamente valido e tecnologicamente avanzato.
La ristrutturazione fu realizzata dalla Ditta Magnabosco di Thiene vincitrice della gara d’appalto. Da allora in poi vennero utilizzati materiali e macchine moderni in acciaio inox e, per inserire la “polivalente sopraelevata”, fu sacrificato un doppiofondo basculante.
Vennero sostituite completamente le scaffalature in legno della cantina.
L’introduzione della moderna tecnologia casearia consentì la lavorazione contemporanea di tre distinte tipologie di formaggio, il pecorino sardo, le provole di latte vaccino ed il caprino, inoltre le Diramazioni distanti furono dotate di serbatoi refrigerati per il latte.
Queste modifiche consentirono di alleviare la fatica degli operatori ed ottenere un miglioramento in quantità e qualità del prodotto caseario. Il latte, portato al Caseificio dal mezzo apposito, veniva controllato a campione per verificare l’inesistenza di problemi e pompato nel contenitore (doppiofondo basculante e/o polivalente) dopo la termizzazione (trattamento con il calore). In questo modo si garantiva l’igienicità del formaggio e si potevano effettuare più lavorazioni nella stessa giornata.
Anche lo scarico della cagliata, per caduta, agevolava notevolmente la lavorazione.
I detenuti occupati in ambito caseario, con la razionalizzazione della nuova tecnologia poterono ottenere la riduzione dei carichi di lavoro assieme ad una discreta qualificazione professionale da spendere nella società una volta saldato il loro debito.
Erano quegli stessi detenuti che, insieme all’Agente Vincenzo Denofrio (uno degli ultimi casari), nel Caseificio di Cala D’Oliva, giungevano a lavorare, nei periodi primaverili, fino a 2.000 litri di latte al giorno, producendo tre tipologie di formaggio che l’Amministrazione vendeva al personale e, saltuariamente in occasione delle ricorrenze, anche agli stessi reclusi.
PRODUZIONI CASEARIE
Dal latte di pecora si otteneva il pecorino sardo in periodo pasquale una lavorazione era destinata alla produzione di forme di formaggio “primo sale” per le “formaggelle” (tipico dolce sardo tradizionale) e durante la sagionatura è stato sperimentato positivamente anche l’utilizzo della cenere miscelata con olio una pasta cremosa con la quale si coprivano le forme già stagionate (in periodo pre-estivo) per allontanare la mosca dal formaggio per cui le forme prendevano il caratteristico colore nero;
– dal latte bovino si otteneva caciocavallo (famose provole) qualche volta è stata prodotta anche la mozzarella;
– dal latte di capra normalmente si otteneva un formaggio caprino che, per la sua struttura leggermente gessosa ed il sapore molto deciso non incontrava il gradimento del personale per cui, in varie occasioni e non appena il tempo lo consentiva, si produceva un caprino (tipo camembert e brie di origine francese) molto apprezzato, ma con una tecnologia casearia più complessa.
Il pascolo dell’Asinara (il bestiame era tenuto in allevamento semibrado) conferiva al latte e quindi al formaggio, un particolare gusto inconfondibile.
Una trattazione particolare meritano invece la ricotta ed il burro prodotti dal Caseificio di Cala d’Oliva perché oltre al tipo di pascolo con cui il bestiame si alimentava, anche l’assenza di manipolazioni, nonché la freschezza conferivano a questi c.d. “sottoprodotti caseari” caratteristiche organolettiche di qualità indubbiamente superiori.
La lavorazione del burro veniva programmata solo in occasione delle feste poiché la sua produzione diminuiva notevolmente la resa del formaggio ed il colore paglierino (senza aggiunte) risultava meno intenso di quello cui l’industria ci aveva abituato.
Il siero, risultante dalla lavorazione casearia, miscelato a crusca e altre granaglie veniva utilizzato per l’alimentazione dei suini.
Riproponiamo la breve clip del bellissimo documentario “L’Asinara Isola Proibita” di Cini e Celli del 1994 dal quale si può osservare l’operatività del Caseifcio, era il 1993 ed era ancora in funzione, la disposizione degli attrezzi e, non ultima, la maestria del Casaro dell’Asinara Ag. Vincenzo Denofrio che cogliamo l’occasione di salutare. 3)
Carlo Hendel
28 Aprile 2018