Prima parte.
Siamo all’Asinara nel mese di settembre 1938 il “Maestro rurale” Salvatore C. assume servizio nella Casa di Reclusione[1] nella Scuola “Stefano Curti” di Cala Reale.
Salvatore è originario di Pozzomaggiore, un piccolo comune a vocazione agricola nella provincia di Sassari (Pottumaggiore nella variante locale) nella regione del Logudoro e nella sub-regione storica del Meilogu in Sardegna.
Il ragazzo si è diplomato “Maestro rurale” a Oristano all’età di 21 anni.
Ha trentasei anni, quando giunge sull’isola dell’Asinara e la sua salute è un poco malferma, inoltre le sue risorse economiche sono molto limitate, ma decide comunque di accettare il gravoso incarico.
Il periodo è quello del ventennio fascista e, per inquadrare correttamente il contesto in cui collocare il racconto del Maestro rurale Salvatore C., occorre non dimenticare che il regime fascista fece molto affidamento sulla propaganda per diffondere, in modo capillare, le sue parole d’ordine, ma fu altrettanto consapevole che l’opera non fosse facile, per cui i testi scolastici inneggianti il regime vengono affiancati dall’opera di istituzioni come “l’Opera Nazionale Balilla per l’assistenza e per l’educazione fisica e morale della gioventù” (istituita nel 1926) che aveva lo scopo di “infondere nei giovani il sentimento della disciplina e dell’educazione militare, renderli consapevoli della loro italianità e del loro ruolo di “fascisti del domani“. (Wikipedia)
Ai maestri rurali venne imposto, pena la decadenza dall’incarico, prima un giuramento di fedeltà al regime (nel 1929-31), poi, nel 1932, l’iscrizione obbligatoria al partito fascista.
Una volta decaduto il regime, si è assistito ad una sorta di rimozione collettiva dei fatti esecrabili accaduti ed ad un occultamento dei testi e dei documenti che ne riferivano.
Importanti istruzioni per l’uso
L’assenza di fonti qualificate ha costretto appassionati e storici dell’epoca a far riferimento ai diari dei maestri rurali per documentare situazioni e dati di fatto realmente accaduti. In questa sede, per rendere maggiormente fruibile il racconto, ho suddiviso il “Diario di un maestro rurale” in sette brevi capitoli, personalmente titolati.
Il testo del Diario invece non è stato minimamente modificato e riporta esclusivamente le impressioni dell’autore del “Giornale di Classe”, i capitoli sono i seguenti:
- La valigia di fibra;
- L’assenteismo borioso;
- Natale in carcere;
- I finti vivi;
- Il potere del gerarca;
- Svaghi isolani
- La cultura
La pubblicazione dei capitoli sarà casuale iniziando da quelli in neretto arancio, o meglio verrà effettuata in coincidenza singolare con i fatti che accadono nel nostro paese che appare impazzito, in questa calda estate. Inizieremo dal primo capitolo e pubblicheremo ad intervalli i capitoli artificialmente suddivisi; al termine della pubblicazione però tutto il documento originale sarà patrimonio dei cortesi lettori.
Prima di procedere alla esposizione del primo racconto occorre che io faccia un’ultima annotazione, i fatti occorsi all’Asinara non possono essere descritti compiutamente soltanto prendendo spunto da questo scritto, che proviene da un’unica fonte, si ha bisogno del riscontro con altre evenienze, i fatti necessitano di conforto e di conferme, o, eventualmente, smentite.
Sono già in possesso di ulteriori contributi che saranno successivamente pubblicati.
Non tutte le categorie menzionate nel diario sono omogenee e univoche, sicuramente insieme a persone che hanno compiuto atti esecrabili, vi sono stati altri che li hanno rifiutati, stigmatizzati e /o che si sono dissociati da essi.
Tengo molto che questa narrazione conservi solo il suo originale senso di mera testimonianza, le uniche aggiunte sono riportate nelle note a margine (non presenti nel testo originale) necessarie solo a far comprendere termini desueti.
L’ironia, a volte aspra, con la quale Salvatore C. infarcisce i suoi giudizi, lascia trasparire una sofferenza profonda dell’autore forse dovuta alla mancanza di uno spessore culturale evidente nel rapporto diuturno con i differenti attori del proprio vissuto quotidiano. Il cognome del Maestro rurale è stato omesso per ragioni di opportunità nonostante i settant’anni previsti per la prescritta liberalizzazione delle fonti.
A noi che ottant’anni dopo ci accingiamo a leggere il suo scritto, per capire correttamente occorre sgombrare il campo e la mente dai pregiudizi, basterà “vivere da uomini”, cioè cercare di spiegare a noi stessi il perché delle azioni proprie e altrui, tenere gli occhi aperti, curiosi su tutto e tutti, sforzarsi di capire, ogni giorno di più, l’organismo di cui siamo parte, penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza, di passione, dì volontà; non addormentarsi, non impigrire mai; dare alla vita il suo giusto valore in modo da essere pronti, secondo le necessità, a difenderla o a sacrificarla[2].
La Cultura non ha altro significato.
Questi ultimi due capoversi non sono miei e neppure dell’autore del Diario, bensì sono di un famoso pensatore italiano che li scrisse in carcere nel 1948/5 e liberamente adattati.
In anticipo sul primo pezzo che viene pubblicato, mi preme evidenziare i meriti della “banda dei topi di biblioteca” che mi ha consentito questo lavoro e coadiuvato nella ricerca e pubblicazione del pezzo e per ringraziarli con affetto ve li indico inserendo le loro immagini tratte dai rispettivi profili: Maria Franca Canu – Leonardo Delogu – Liliana Pirisi.
CAPITOLO I “La valigia di fibra”.
L’isola dell’Asinara e ormai vicinissima.
Il mare nella rada è calmo. Il vecchio timoniere, un coriaceo ponzese, continua imperturbato a masticar tabacco e a schizzar saliva.
Due amici si rimbeccano scherzosamente; qualcuno più coraggioso, accende una sigaretta, ma dopo le prime aspirate, la lascia melanconicamente consumare nauseato.
Sbucano della stiva quattro detenuti nella loro triste divisa; guardano in giro, fissano lo sguardo in lontananza, poi, lentamente, abulicamente si preparano a sbarcare.
Un’ora che ha il magico potere di far scordare ogni rinuncia, ogni umiliazione, tutta una vita di stenti, di triboli, di miserie e di dolori, suona per tutti.
Un’ora bella, solare, indimenticabile, scocca, almeno una volta, per tutti, anche per la..… valigia d’un maestro rurale.
Povera valigia di fibra!
Chissà quante volte avrai guardato, come malcelata invidia, le tue consorelle di alto lignaggio (vera pelle, nei colori più svariati, da quello naturale al più sfacciato colore paglierino), che ostentavano, borghesemente, numerosi e multicolori rettangoli di carta, su cui figuravano stampati nomi di località famose e di alberghi di lusso!
Tu che, in tutti trasbordi, sei stata, faticosamente, portata, trascinata dal braccio malfermo del tuo padrone, dal sangue e dal portamonete anemici, tu, chissà quante volte, ti sarai sentita umiliata, vedendo le tue consorelle ciondolare pigramente dietro le quadrate spalle o davanti al petto villoso di quegli strani esseri della casacca di tela a lunghe righe, dal pseudo berretto militare e con tanto di placca numerata!
Oggi, però, è suonata anche per te, quella tal famosa ora magica.
Un degiae etiopico[3], una specie di generalone, si è chinato verso di te e, con ogni riguardo ed attenzione, ti ha trasportato al nuovo domicilio del tuo padrone.
Stasera le montagne si preparano, per la notte, paramenti e cuscini di nuvole, mentre un corvo, con le lunghe ali spalancate, rotea al di sopra del fosso, lento come una vendetta.
CAPITOLO VI “Svaghi isolani”.
I divertimenti in colonia sono rari, niente di più facile quindi se, per fugare lo “Spleen[4]” o l’emicrania si ricorre a qualche cosa di esotico, agli abissini[5] per esempio.
Se ne chiamano tre o quattro, si mettono spalle al muro e poi si scaricano loro parecchi colpi di rivoltella a salve.
Le Signore ridono, fanno dello spirito se il nero è diventato bianco per l’emozione, poi il gioco continua.
Si accendono razzi sulla faccia di questi disgraziati, si buttano le cicche delle sigarette accese lungo le spalle di questi nostri sudditi, si sottopongono a docce fredde e fuori programma, si assordano in mille modi. Grazioso?
Ma è ancora più grazioso andare a vedere in cella gli Etiopi che non hanno avanzato tozzi di pane per i conigli dei finti vivi.
Con le catene ai piedi, sono tanto carini, dicono le Signore con l’emicrania e i Signori ammalati di spleen.
L’insegnante si era offerto, dato che parlano quasi tutti la nostra lingua, per un corso gratuito di Cultura Fascista, ma la proposta è stata scartata.
Le persone che devono aver prestigio e considerazione presso gli Etiopi devono essere solamente tre.
Gli Etiopi sono tenuti a salutare solo tre persone, gli altri non contano. Un bel monopolio!
[1] Nel 1932 il Direttore era il Cav. Donato Carretta, il segretario politico del partito fascista era Umberto Massidda.
[2] A. G. Quaderni del carcere, 1948/51 (postumo).
[3] “Degiae” termine desueto per definire un militare dignitario di corte etiopico.
[4] Lo spleen decadente è una forma particolare di disagio esistenziale, ma rimandato alla natura sensibile del poeta nel suo complesso, alla sua incapacità di adeguamento al mondo reale. Lo Spleen, a differenza del taedium vitae leopardiano, non produce riflessività sulla condizione umana, ma si esprime a livello artistico con la descrizione degli effetti opprimenti e terribili dell’angoscia esistenziale. Rappresenta uno stato di depressione cupa, angosciosa, dal quale è impossibile sfuggire.
[5] Abissinia era l’antico nome dell’odierna Etiopia. Il Regno d’italia ingaggiò con questo paese la prima guerra italo-etiopica o campagna d’Africa orientale, un conflitto militare combattuto tra il dicembre del 1895 e l’ottobre del 1896 tra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia.