Se, tornando da una passeggiata al cannone, si davano le spalle alla Madonnina e si guardava d’innanzi, alzando leggermente il viso, puntando il profilo collinare che sovrasta il paesello di Cala d’Oliva, traguardando sopra le ultime abitazioni, sino ad arrivare ai fabbricati che una volta furono adibiti a pollaio, poi a porcilaia, si poteva ammirare una distesa di piante.
Le stesse essenze vegetali che hanno dato il nome a questo racconto: “figa morisca”.
La parola altro non è che la definizione sarda che distingue il “fico d’india” (Opuntia ficus-indica (L.) Mill., 1768) pianta succulenta della famiglia delle Cactaceae, originaria del Messico ed importata nel 1550 nello stesso periodo storico dei viaggi di Cristoforo Colombo, una pianta che si è ambientata perfettamente nelle zone temperate in tutta la penisola, naturalizzandosi.
Le capre ormai hanno pulito completamente ogni residuo di vegetazione bassa a Cala d’Oliva, ma dovete sapere che una ventina d’anni fa la “figa morisca” ovvero la pianta del fico d’India era diffusa un poco in tutta l’isola ed in particolare a Cala d’Oliva ed era sicuramente, assieme all’asinello bianco, un tratto distintivo del paesaggio asinarino.
Altra zona di fichi d’india era localizzata nei pressi della porcilaia piccola posta lungo sotto la strada sterrata che conduce a Punta Sabina.
La zona scoscesa già richiamata, rappresentata nell’immagine che precede e che sovrasta gli ultimi tetti del paesello, oggi è punteggiata da arbusti di macchia mediterranea, ma una volta era letteralmente infestata da fichi d’India che addirittura riuscivano ad impedire il passaggio alle persone, per quanto erano grandi e fitte le pale spinose.
Gli anziani abitanti dell’Asinara ricordano ancora questa pianta quale ottima fonte di alimentazione, soprattutto in periodi di scarsità di cibo.
Durante il periodo della guerra nel quale la disponibilità di cibo non era sicuramente sufficiente, nel periodo estivo, le famiglie di Cala d’Oliva e quelle delle Diramazioni si approvvigionavano dei frutti maturi, in grande quantità, per il consumo diretto, ma ancor più per poterne fare squisite confetture di marmellate e quindi ottimi dolci.
Le pale del fico d’India costituiscono il tronco e botanicamente sono chiamate “cladodi”, anche questa parte della pianta è suscettibile di differenti utilizzazioni:
– come alimentazione per i bestiame, capre e cinghiali
– e come materia prima per la produzione del sapone.
Infatti le pale si aggiungevano al grasso animale nei pentoloni che bollivano con l’aggiunta di “saponina” in percentuali preordinate, sino a ottenere un sapone molto delicato e ricercato.
A volte, all’impasto per il sapone destinano al lavaggio dei capi più grezzi, veniva aggiunta anche una parte di “terra grassa di Tumbarinu” prelevata nell’omonima località e nel luogo ove ancora sono visibili le garitte del periodo bellico.
Le immagini della lavorazione del sapone sono tratte del sito del Saponificio S’Edera, ad Urzulei (Nu) una località alle falde del Supramonte, circondata dalla “macchia mediterranea”, dove oggi le nuove tecnologie della formulazione cosmetica, incontrano felicemente la tradizione millenaria sarda attraverso l’utilizzo delle piante officinali.
Il gioco: il “baseball de sa figa morisca”.
Il sole picchiava duro e la squadra di detenuti, addetta alla raccolta dei fichi d’india, lavorava in modo da raggiungere rapidamente il quantitativo necessario ad alimentare i suini della diramazione.
Raccoglievano le pale dei fichi d’india che poi venivano spazzolati con grandi ciuffi d’erba fresca per togliere le fastidiosissime spine, indi caricati sul carretto trainato dal mulo e trasportati nei pressi della porcilaia.
Quando i maiali percepivano il cigolio delle ruote del carretto, si scuotevano dal torpore ed iniziavano ad agitarsi con grugniti che rapidamente diventavano un rumore molto forte che si faceva sentire fino al paesello.
Questo lavoro di raccolta durava fino alle 15,00 e quando le pale venivano gettate nelle porcilaie i maiali si gettavano sul vegetale mostrando il loro apprezzamento con il loro grugnito sommesso, si acquietavano.
Prima che giungesse l’ora del rientro in Diramazione e mentre la guardia si riposava finalmente all’ombra del fico, i detenuti si divertivano eseguendo questo gioco particolare:
– tiravano fuori un secchio in cui erano riposti molti frutti di fichi d’India privati delle bucce e delle spine.
Terminata l’operazione i “giocatori” si dividevano in due squadre composte da tre quattro persone ed eseguivano la conta per stabilire il primo battitore che avrebbe impugnato una specie di tavoletta piatta per colpire il fico d’india e spedirlo verso il “ricevitore”.
Avete presente il baseball anglosassone? Bene, all’Asinara si giocava il “baseball de sa figa morisca“.
I detenuti avevano leggermente modificato le regole perché al posto della palla si batteva un frutto maturo di fico d’India diretto contro l’avversario che doveva prenderlo al volo, no non con le mani munite di guantone ……….bensì con i denti!
Si, avete capito bene, proprio con i denti!!!
A turno ogni battitore doveva “battere” due fichi a scelta e doveva “ricevere” a sua volta due fichi.
Immaginate quanti fichi d’india si spiaccicavano al momento della battuta e quante volte, nel tentativo di prendere il frutto al volo, al “ricevitore” veniva assestato un deciso colpo di fico d’india nell’occhio!!
Le risate però erano assicurate!
E durante il percorso del rientro in diramazione, prima del calar del sole, i commenti vertevano esclusivamente sulla partita appena conclusa.
IL FURTO DEI FICHI D’INDIA da parte della matricola 7093
Biglietto di punizione
tratto dal bellissimo testo LE CARTE LIBERATE di Gazale e Tedde ed. Carlo Delfino 2015
Carcere Asinara – anno 1943 il 09 di settembre
il recluso matricola 7093 “….mentre si recava a ritirare i buoi al pascolo rubò dalla vigna della Diramazione di Trabuccato circa quaranta fichi d’india”.
Il detenuto venne sanzionato con un’ammenda pecuniaria di cui però non è dato conoscere l’importo.
21.11.2016